La conciliazione come risorsa mancata, la necessità di strategie di riorganizzazione del lavoro e riqualificazione delle professionalità, ma anche la necessità di chiamare a responsabilità le istituzioni locali e le aziende: sono questi i temi centrali dell’indagine realizzata per la Fillea Puglia e nazionale da Letizia Carrera, ricercatrice dell’Università degli studi di Bari. Siamo partiti da una ricerca scientifica per supportare quanto già sapevamo, quanto le lavoratrici dei salottifici pugliesi già da tempo ci dicono, con l’obiettivo di trovare risposte concrete alle loro richieste. Oggi presentiamo i risultati dell’indagine, una serie di dati e considerazioni che rappresentano uno strumento importante della nostra azione di sindacato delle costruzioni in tema di genere. Da subito ci è apparso chiaro il vulnus principale di questo particolare segmento produttivo, il rapporto problematico che le lavoratrici del distretto del mobile pugliese hanno con il lavoro. Abbiamo pensato allora ai campi da indagare più in profondità, per avere dalle stesse lavoratrici le risposte, convinti che a specifici bisogni corrispondono tutele generali e specifiche. La finalità è stata quella di pensare e intraprendere, insieme agli altri attori del welfare, percorsi che rispondano ai bisogni reali dei lavoratori, ma ancor di più delle lavoratrici di questo distretto produttivo. 

Un impegno, quello della Fillea Cgil, che in questa regione non parte da oggi. Già nel marzo 2013 avevamo parlato alle lavoratrici e alle aziende presentando a Santeramo il nostro libro “Fiori dal cemento”, che conteneva un’intervista ad una delegata della Natuzzi; poi ancora a marzo 2014 durante i lavori del Congresso regionale della categoria e a luglio dello stesso anno, quando è nata insieme alle compagne della Fillea regionale l’idea della ricerca. Negli anni passati abbiamo analizzato e indagato più volte l’occupazione femminile nel settore dell’edilizia, ma mai quello del legno e del mobile/arredo.                                                                                                                                                     

Ma cosa è emerso dall’indagine? Il lavoro per le donne continua ad essere un elemento critico sia nella loro esistenza, sia nel mercato del lavoro. L’occupazione femminile continua a presentare tassi più bassi di quella maschile, mentre sono più alti i tassi di disoccupazione e soprattutto di inattività. Questa che chiaramente è una “debolezza” del nostro paese, non è un dato congiunturale che risente solo dell’effetto della crisi economica, ma piuttosto un dato strutturale, come mostrano chiaramente le serie storiche dei dati sull’occupazione femminile in Puglia. Nel 2015 le donne occupate erano 420.000 contro 763.000 uomini, un gap che dura ininterrotto da più di 10 anni e che è stato poco modificato dalla crisi. Negli ultimi anni si sono accentuate, invece, alcune specificità negative del lavoro femminile, ma non tanto in termini quantitativi. Non possiamo non considerare l’acuirsi di fenomeni tipici della segregazione lavorativa delle donne, l’impossibilità di seguire una formazione professionale continua e coerente con i percorsi scolastici e le proprie vocazioni, la disparità di opportunità di accesso e di permanenza stabile nel mondo del lavoro, il gender pay gap, l’impossibilità di far carriera. Se possiamo parlare di una rivoluzione ritardata in Italia, al Sud e in Puglia questa si può dire bloccata e ciò non può essere compreso se non si guarda alla faccia nascosta del lavoro delle donne, sempre assorbite da una presenza perdurante all’interno della casa e della famiglia.                                                    

La ricerca è stata realizzata in un contesto molto particolare. Nel distretto del salotto pugliese, l’occupazione femminile si può dire alta rispetto ad altri settori produttivi e a quello delle costruzioni in generale. Su un totale di circa 6.000 addetti il 40% sono donne, una percentuale più elevata rispetto alla presenza media di donne nel settore legno in Italia che è del 30%. La ricerca è stata effettuata su un campione di 116 intervistate in 6 aziende e una decina di stabilimenti. Il focus è stata l’indagine sulle difficoltà e le strategie di conciliazione tra vita privata e lavorativa delle donne, ma non solo; si è voluto analizzare anche il significato del lavoro, il rapporto con le aziende, con il sindacato e con le istituzioni locali. I risultati dell’indagine evidenziano quanto le donne appaiano ancora risorse deboli ai datori di lavoro, costose e poco affidabili, soggetti su cui è difficile e rischioso investire, visto che tutti gli impegni legati alla maternità e alla cura della famiglia sono causa di assenze da lavoro o minore disponibilità a trasferte, straordinari e incarichi fuori sede.                               

La maggior parte delle intervistate ha dichiarato di aver deciso di lavorare per necessità economica (38%), e per avere un’indipendenza economica (32%); solo il 16% parla di realizzazione personale. Per quasi tutte, comunque, il lavoro rappresenta una parte fondamentale della propria esistenza. “Il lavoro è tutto. Infatti, se lavori la moneta gira: puoi comprare, fare acquisti, viaggi. Ti senti indipendente se lavori. Il lavoro è vita” dice un’intervistata. E un’altra: “Lavoro per acquisire un'autonomia economica e non dipendere da nessuno. Una donna si sente libera solo se ha un proprio stipendio e non deve chiedere niente a nessuno”.  Il proprio lavoro piace all’80% delle intervistate, anche se ben il 70% dice che negli anni il rapporto con l’azienda è peggiorato. Per quanto riguarda il rapporto con il sindacato, sempre critico e difficile in questo contesto, la ricerca ci dice molto e chiaramente ci suggerisce cosa dovremmo fare.

I tratti culturali del territorio sono caratterizzati da un basso livello di conoscenza dei diritti e di cultura di genere. La maggior parte delle lavoratrici si è avvicinata al sindacato per avere la soluzione a problemi personali di lavoro (81%), e solo in minima parte per motivazioni etico-ideali o per richiedere diritti collettivi.                                                                                

Le intervistate ci suggeriscono una maggiore diffusione della cultura del sindacato, una maggiore comunicazione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, insieme alla necessità di avere risposte diversificate e complessive. “Il sindacato fa già tanto - dice una lavoratrice - perché se non c'è un'organizzazione che difende tutti, ognuno è solo. Una voce che non ce la fa a gridare contro l'azienda (…) ma il sindacato deve fare di più. Occorre che tutti e tutte capiscano quanto è importante essere difesi, che noi abbiamo il diritto di lavorare e di avere dei figli, che non deve essere un favore che ti fa l'azienda. E noi dobbiamo alzare la voce, ma qua molte dicono che è normale così, che è già tanto che lavoriamo, che i figli sono un problema della mamma e che se la deve vedere lei. (…) Lo vedi il lavoro che c'è da fare!” 

Rispetto ai temi della conciliazione, le donne sono le prime ad essere consapevoli dell’assenza di un sistema di welfare conciliativo, e quindi a orientarsi fin dalle loro scelte formative verso percorsi che immaginano compatibili con il loro ruolo domestico di mogli, madri e successivamente di figlie di genitori non più autosufficienti, rivolgendosi spesso e di conseguenza a settori a bassa produttività e poco retribuiti. Ricordiamo a questo riguardo che il 73,3% delle lavoratrici intervistate sono operaie cucitrici e solo il 6,4% impiegate. Nel corso della vita lavorativa ben l’80% delle intervistate dice di aver avuto seri problemi di conciliazione tra vita privata e lavoro. Tra i principali problemi ci sono la gestione dei figli, poi la gestione dell’abitazione e infine la cura dei genitori anziani o non autosufficienti. Nel territorio appare drammatica l’assenza sia di un welfare pubblico, sia di un welfare privato o aziendale. Questo spinge la quasi totalità delle lavoratrici a trovare delle soluzioni private e, se non possono esserci soluzioni, la scelta è quella di lasciare il lavoro. Tutto questo è chiaramente supportato da un modello culturale arcaico e arretrato.

Il ruolo delle aziende potrebbe essere fondamentale, ma la maggior parte sostiene di non essere stata supportata dall’azienda, di aver dovuto gestire le difficoltà “nonostante” l’azienda. Laddove ci sono state soluzioni condivise lo sono state in modo individuale, contrattando da sole con i capi reparto. “Alcune volte che non trovavo nessuno per la bambina, dovevo per forza chiedere la malattia dicendo che stavo male. E come dovevo fare? A me dispiaceva perché era come imbrogliare e allora il responsabile era una brava persona, ma come facevo a dirgli che dovevo rimanere a casa con la bambina? Poi quando tornavo al lavoro cercavo pure di recuperare il lavoro che non avevo fatto”. La stessa assenza di supporto è percepita per quanto riguarda le amministrazioni locali, tanto che solo il 5% delle intervistate sottolinea la necessità di strutture pubbliche di cura per l’infanzia o per la terza età. È come se ci fosse una sorta di abitudine culturale a risolvere i problemi da sé che impedisce al bisogno di prendere forma e di diventare domanda legittima e pubblica.

Viene fuori un panorama di assenza di riflessione collettiva sul tema della conciliazione, e così di strategie risolutive. Proposte e strategie d’intervento si possono leggere però nelle risposte delle lavoratrici, non perdendo le loro sollecitazioni che portano alla proposta di formule miste di pubblico e privato, dove aziende e territorio possono offrire soluzioni integrate. Altro tema suggerito è stato il ripensamento dei tempi e degli spazi sia delle aziende, sia delle città. “Occorrerebbero tante cose: riorganizzare l'orario di lavoro, creare all'interno dell'azienda spazi per accogliere e gestire bambini, introdurre il part-time, creare convenzioni con enti per la cura di malattie professionali (tendiniti, cervicali) e disfunzioni respiratorie causate da agenti chimici”.                                                                    Quella che viene esplicitamente trasmessa dalla ricerca è la necessità anche di un profondo ripensamento culturale. È evidente la denuncia della mancanza della protezione della “normalità”, la consapevolezza che debbano essere soprattutto la quotidianità e la normalità a dover essere supportate.