“A questi l’industria non interessa. L’importante è far soldi”. Dopo avere a lungo pazientato nel traffico siamo finalmente davanti alla Seves, l’azienda fiorentina che, con i suoi mattoni in vetro cemento, negli anni passati si è fatta apprezzare ovunque conquistando, nel settore, una salda leadership di mercato. Prima di entrare, Bernardo Marasco – il giovane segretario generale della Filctem Cgil di Firenze, studi di psicologia e praticantato sindacale in Nidil – riassume in una battuta la verità del travaglio che stanno vivendo, ormai da un bel po’, i novantasette lavoratori dello stabilimento. “Questi” sono gli uomini di Triton, il fondo d’investimento tedesco che, l’intero gruppo in crisi profonda, si è fatto avanti alla fine del 2013 per acquisirlo e trovare poi i modi, suggerisce il sindacalista, per rivenderlo e guadagnarci su. A patto però di chiudere preventivamente il sito toscano: quello della produzione di qualità – i mattoni basic sono di competenza di uno stabilimento ceco, il resto, gli isolatori termici, vedono la luce negli altri siti sparsi per il mondo –. “Vedremo ora cosa accadrà – riattacca Marasco –: ora che abbiamo strappato un altro anno di cassa integrazione e Seves, in realtà Triton, ha preso finalmente in considerazione l’ipotesi di un compratore per la fabbrica. Ma andiamo dentro, così ti raccontano”.

L’antefatto
Siamo a Firenze, pochi giorni prima che una delegazione della Seves venga ricevuta al Quirinale – chiudiamo questo articolo mentre i lavoratori sono a Roma, il 30 giugno –, per farci spiegare cosa sia accaduto nella fabbrica negli ultimi anni e quali concrete prospettive di salvezza oggi abbia davanti. Ma prima, per rendere più chiaro il racconto, bisogna fare un passo indietro.

Seves comincia a perdere colpi in realtà già nel 2006: ben prima, dunque, che insorga la Grande Crisi. Quando questa sopraggiunge, nel 2008, i tre fondi d’investimento che controllano il gruppo – Vestar, Athena e Ergon – mettono da parte Enrico Basso, amministratore delegato e padre padrone dell’azienda, l’uomo che ne ha costruito il successo in campo internazionale, e rinnovano il management. Non cambia però l’andazzo; le difficoltà continuano – i dipendenti sono in cigs – e le relazioni sindacali, pessime ai tempi di Basso, non migliorano. Ad accendere le speranze è, nella primavera del 2010, la ripresa del dialogo tra Cgil e Seves – Cisl e Uil sono assenti –. L’allora Filcem Cgil e la Camera del lavoro di Firenze chiedono all’azienda e alle istituzioni di avviare un tavolo di concertazione che consenta il rilancio dell’impresa. Ciò che poi accadde lo sintetizzammo a suo tempo su Rassegna (n. 36, 2010). In sintesi: 103 persone, più dei due terzi dei lavoratori in quel momento occupati, conservano il posto di lavoro; fra i lavoratori considerati in esubero 18 vengono avviati verso il prepensionamento mentre per altri 23, finita la cig straordinaria, si prevede la mobilità. Il tutto accompagnato dall’auspicio, una volta chiuso con la cigs, a fine 2011, che il mercato riprenda a tirare. E dalla convinzione che l’armatura di relazioni industriali appena disegnata – considerata una positiva novità – possa reggere nel tempo, fare da sostegno alla qualità indiscussa della produzione. Produzione per la quale, fra l’altro – è una parte dell’accordo –, si prevedono impegni precisi in fatto di innovazione – il mattone energy saving, per dirne una –.
Ma sarà proprio questo, come mi raccontano con Marasco alcuni lavoratori – Gaetano Forcella, tra i protagonisti dell’intera vicenda, e poi Barbara Orfeo, Myriam Risson e Luca Ardu – il punctum dolens del dopo accordo. L’innovazione, per responsabilità diretta dell’impresa, si tradurrà in un flop – “che nessuna trovata di marketing riuscirà a evitare”, spiegano i miei interlocutori –. Un flop cui si aggiungono, alla fine sarà il motivo primo del tracollo, le disastrose condizioni finanziarie del gruppo. Dopo due anni di galleggiamento, nel dicembre 2012, la situazione infatti precipita. Le banche si fanno avanti e Seves, di rimando, annuncia la chiusura del forno di Firenze. Non ci sono più risorse: l’unico modo per salvarsi dal fallimento, e vendere prima che sia troppo tardi, pensa il vertice aziendale, è chiudere il rubinetto delle uscite: “Risparmiare sulle bollette”, osserva Marasco.

La Cgil, ovviamente, non ci sta. È una strategia suicida, spiega la Filctem: spegnere il forno fusorio significa condannare il sito, farlo uscire dal mercato. La mobilitazione dunque è immediata. E, primo atto di una vicenda assai originale, quella delle forme di lotta adottate, accanto al no alla chiusura, e mentre viene avviata la cig, nella battaglia per la salvezza della fabbrica si decide di coinvolgere l’intero quartiere – Seves sorge nel rione del Sodo, due passi da Castello e dalle Ville Medicee, nel quartiere 5 di Rifredi –. Momenti conviviali, cene e barbecue, si alternano in tal modo alla protesta, sino a una partecipatissima fiaccolata, in un crescendo che rinnova il legame da sempre molto sentito tra la fabbrica e la gente che ci vive intorno – a simboleggiarlo, il nuovo fontanello del Sodo, completamento rivestito con i vetri colorati della Seves, che Forcella mi mostra quando usciamo dallo stabilimento –. “È una situazione di attesa, quella che dal dicembre del 2012 si comincia a vivere – riprende Marasco –. Ma non di attesa passiva. Tutte le nostre iniziative hanno un solo filo conduttore: legare il prodotto alla sua qualità estetica, spiegare che chiudere Seves è chiudere un’azienda che porta Firenze e la sua bellezza nel mondo”.

Passa un anno, e il 20 dicembre 2013 arriva anche una lettera di solidarietà di Renzo Piano, l’archistar che con i vetro mattoni di Seves ha ideato la Maison Hermès di Tokyo: “Il senatore Renzo Piano esprime solidarietà ai lavoratori del Gruppo Seves e preoccupazione per il futuro dell’azienda fiorentina che rappresenta una delle eccellenze italiane – informa www.viviseves.it, il sito creato dai lavoratori in lotta –. Con Seves l’architetto Piano ha realizzato, tra il 1998 e il 2006, la facciata in mattoni di vetro della Maison Hermès a Tokyo, che di giorno riflette la luce esterna e di notte risplende della luminosità interna. Per creare l’elemento di rivestimento sono stati necessari due anni di studio, test e sperimentazioni. La difficoltà, che conferma l’altissima professionalità di questa azienda, era quella di sfidare la temuta forza devastante dei terremoti con mattoni di fragilissimo vetro. Il modulo di vetro quadrato da 45 centimetri, ripetuto per 13mila volte, corrisponde a una goccia di vetro fuso: una misura determinata fisicamente dalla tensione superficiale del materiale. La goccia viene lavorata prima che si raffreddi, e sotto la pressa crea una caratteristica increspatura sempre diversa. Tutto questo testimonia, oggi che il forno per fare i mattoni è purtroppo chiuso da più di un anno, l’importanza del Gruppo Seves per il nostro paese e il valore delle professionalità che vi operano. Renzo Piano auspica che, con l’aiuto delle istituzioni e di tutti i soggetti interessati, si possa trovare una soluzione positiva al più presto per non disperdere una ricchezza solo italiana e perché i mattoni in vetro continuino a splendere in giro per il mondo”.

La lettera di Piano giunge mentre la vicenda subisce una improvvisa accelerazione. La ricerca di un acquirente ha sortito i suoi effetti e sulla scena è comparso un nuovo fondo, un fondo tedesco. Si chiama Triton, e il 28 dicembre conclude con Seves e le banche un preaccordo per l’acquisto del gruppo e l’estinzione dei debiti. Ma, piccolo particolare, l’intesa prevede che il sito di Firenze debba essere chiuso prima del suo ingresso. Risultato, mentre la tensione si fa subito altissima, l’annuncio di Seves a fine gennaio 2014 dell’avvio della procedura di mobilità – 74 dipendenti, più avanti diventeranno 61 –, che scadrebbe ad aprile, e della definitiva cessazione in giugno dell’attività nello stabilimento fiorentino.

Il no è immediato. “Eravamo in cassa integrazione e dovevamo restarci fino all’8 giugno. Perché anticipare la scadenza invece di esplorare la possibilità di nuovi acquirenti, cosa di cui intanto si era cominciato a parlare?” dicono i lavoratori. “È la conferma – interviene Marasco riprendendo la sua osservazione iniziale – che al fondo l’industria non interessa. Comprare e poi rivendere a pezzi, questo l’obiettivo. Chiudere Firenze per spostare tutto nella Repubblica ceca. Fine del mattone fiorentino, rinuncia ai prodotti di qualità? Non importa: bisogna concentrarsi sul sito ceco, potenziarne la redditività, poi si venderà anche quello. Tutto sulla pelle dei lavoratori e delle loro famiglie”. Che fare? È a questo punto, con la decisione dell’“occupazione intermittente”, che emerge tutta l’originalità della lotta della Seves.

Le forme di lotta
Salire sui tetti o sulle gru, incatenarsi, ammanettarsi o chiudersi dentro. Nel panorama tradizionale delle forme di lotta, la Grande Crisi ha portato inizialmente una novità: il gesto esemplare, individuale o collettivo che fosse. Una novità che, sfuggendo ai codici classici e alle loro intenzioni (nobilmente) pedagogiche, ha avuto il merito – obiettivamente – di riportare sotto la luce dei riflettori il dramma di tante comunità operaie e, con loro, della progressiva deindustrializzazione di intere aree del paese. Segnata da un limite, però: quello, inevitabile, del reality televisivo, della trasformazione delle disgrazie (altrui) in mero oggetto di consumo. Uno, due, tre giorni in tv, poi avanti un altro – un’altra crisi aziendale, altri guai, altra gente, arrivata magari a cinquant’anni, quando-non-ti-piglia-più-nessuno, senza futuro –. “Noi abbiamo fatto una scelta diversa – racconta Marasco –. Abbiamo deciso che non era il caso di chiuderci nello stabilimento. La Seves non poteva trasformarsi in un sarcofago, doveva aprirsi alla città, diventare in questo modo, scusa la ripetizione, anche un luogo di crescita della cittadinanza: la città in fabbrica, insomma”. E “La città in fabbrica” diventa per l’appunto lo slogan – in testa anche al sito e alla pagina facebook dei lavoratori – che accompagna le molteplici iniziative messe in opera a partire dai primi di febbraio. Il teatro d’animazione, la gara di cucina – “SevesChef”, con il patron del Cibreo Fabio Picchi a fare da giudice –, e lo street artist Solo con le sue creazioni, la musica, il carnevale dei bambini e Paolo Hendel che fa spiegare a Carcarlo Pravettoni come si dovrebbe “salvare” la fabbrica. Un crescendo di iniziative che trasforma la Seves in uno dei luoghi più vivaci di Firenze, attirando la curiosità e stimolando l’impegno di tanti artisti – “Abbiamo un mare di richieste, ormai si fa la fila” dice sorridendo Forcella –.

Un compratore
Intanto, come si era avvertito già in gennaio – pensando però al fondo italiano Opera, legato all’americano Cerberus – tra febbraio e marzo si fanno insistenti le voci di un compratore: per lo stabilimento di Firenze e, spiega Marasco, forse per l’intera produzione dei mattoni in vetro: si tratta di una cordata di imprenditori, il suo nome è Progetto 3. Siamo a marzo, e il 13 si apre a Roma il tavolo nazionale sulla Seves. Da un lato emerge la possibilità di una proroga degli ammortizzatori sociali, dall’altro l’azienda non accoglie la richiesta sindacale di ritiro della procedura di mobilità. L’unico dato positivo è la disponibilità a sospendere i licenziamenti (che colpirebbero 74 lavoratori su 97). Triton, intanto, non ha ancora presentato al tribunale l’accordo con le banche sul debito, i tempi sembrano essersi allungati. L’istanza per la ristrutturazione del debito dovrebbe arrivare a fine marzo, il tribunale avrebbe poi sessanta giorni per pronunciarsi. Chiusa questa fase Progetto 3 potrà dire la sua.

L’istanza arriva in Tribunale solo il 7 di maggio. Ora il giudice, come si accennava, ha sessanta giorni, cui se ne aggiungono trenta di proroga, per dare o meno il suo assenso. Ma non c’è il tempo di dire “meglio tardi che mai”, con la preoccupazione della scadenza della cig – l’8 giugno – sempre più vicina, che arriva il colpo basso: “Urgentissimo. Invito alla stampa. Drammatica accelerazione nella vertenza Seves. Domani venerdì 16 maggio alle ore 10.30 si svolgerà un presidio dei lavoratori della Seves in piazza Signoria (Lato Via de Gondi) e un incontro con il sindaco vicario Dario Nardella. Alla fine dell’ incontro, alle ore 11.00 circa, conferenza stampa”. Firmato: Filctem Cgil di Firenze, Rsu Seves.

Cosa è accaduto? Che l’azienda, contraddicendo tutte le aspettative, ha comunicato la volontà di consegnare le lettere di licenziamento il 13 giugno. Una pugnalata alla schiena, commentano sindacato e lavoratori, che compromette ogni tentativo di salvare la fabbrica. Chi comprerebbe una scatola vuota?

La risposta dei lavoratori, cui si affiancano i rappresentanti delle istituzioni – vale la pena citare Gianfranco Simoncini, assessore regionale al Lavoro e alle Attività produttive, sempre presente in tutta la vicenda (dura anche la reazione di Nardella che invita la proprietà a togliersi dalla testa l’idea di una speculazione sui suoli) –, la risposta dei lavoratori, si diceva, è anche in questo caso molto originale: un countdown, un conto alla rovescia – avviato il 21 maggio e previsto sino al 13 giugno – proiettato da Palazzo Vecchio per ricordare a tutta Firenze il destino assegnato alla fabbrica. Intanto, sull’intera storia, Klaus Davi ha montato un dvd: “Se chiudono la Seves muore un pezzo di Firenze, Giorgio aiutaci Tu”, è il messaggio per il capo dello stato che il film contiene nella sua versione ridotta, con la testimonianza di cinquanta lavoratori – il dvd sarà consegnato poi, insieme a un mattone con il ritratto del presidente, nella visita al Quirinale –. Il resto è cronaca dell’ultimo mese. La cig strappata fino all’8 maggio del 2015 – formalizzato nero su bianco il 4 giugno –, e Seves (ovvero Triton) disponibile a valutare le proposte di chi volesse acquisire il mattone in vetro nella sua interezza, quindi non solo lo stabilimento della Repubblica ceca ma anche quello fiorentino.

Come andrà a finire? 
“Noi esprimiamo un auspicio – risponde Marasco –: quello di proposte capaci di garantire a un’eccellenza del made in Italy di restare in piedi”. “Dobbiamo salvaguardare la produzione di nicchia – aggiunge Forcella – e nel contempo diversificare con intelligenza. Il segreto, per il domani, è tutto qui”. “Tu dici che hai visto l’esatto contrario della passività, della rassegnazione – conclude Marasco –. È così: i lavoratori della Seves hanno saputo conquistarsi tanta solidarietà. E questo li ha fatti sentire attori di un percorso vero, di un’impresa che non era, non è, impossibile. Sanno di essere ancora nel mezzo di una battaglia e vivono una situazione disperata. Ma ci sono”.