Concludevamo la precedente puntata di questa inchiesta sull’Europa dopo la Brexit sostenendo che l’obiettivo – neanche troppo latente – dell’involuzione delle politiche sociali è, secondo noi, separare l’accesso al mercato del lavoro dall’accesso alla protezione sociale. A conferma di questo, basterebbe citare il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, il quale a marzo 2015, durante una delle sue visite ufficiali a Londra, il cui scopo principale era discutere della libera circolazione dei lavoratori per convincere Cameron a rimanere nell’Ue, ha apertamente dichiarato che “l’accesso al mercato del lavoro non significa accesso automatico ai sistemi di previdenza sociale”.

LA PRIMA PUNTATA: Ue, che fine ha fatto il diritto di libera circolazione?
LA SECONDA PUNTATA: Se a determinare la cittadinanza è lo status economico

Secondo Timmermans, “mercato del lavoro e previdenza sociale non sono la stessa cosa, e l’accesso al primo non dovrebbe conferire automaticamente un accesso alla seconda”. “Questo, naturalmente, senza fare discriminazioni tra cittadini nazionali e lavoratori di altri Stati membri”, ha aggiunto infine questo alto rappresentante della Commissione europea, che è anche – non dimentichiamolo – un importante esponente del partito laburista olandese. Come a dire, appunto: questa regola tra poco varrà per tutti, “stranieri” e non...

Che questi fatti non siano dei singoli incidenti di percorso, ma piuttosto le pietre miliari di una nuova e restrittiva visione politica dell’Europa, è stato chiaramente confermato dal Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio 2016. In un’atmosfera dominata dall’esigenza di trovare un’intesa con il Regno Unito per scongiurarne l’uscita dall‘Unione e di far fronte alla cosiddetta crisi migratoria e dei rifugiati, i 28 capi di Stato e di governo riunitisi in quell’occasione a Bruxelles hanno adottato all’unanimità alcune misure, tese per così dire a frenare “l’abuso del diritto di libera circolazione delle persone”, colpendo, più precisamente, gli assegni per i figli a carico e le “prestazioni a carattere non contributivo collegate all'esercizio di un'attività lavorativa”.

Per quanto riguarda le prestazioni familiari per figli a carico, i leader europei hanno deciso che la Commissione elaborerà presto una proposta di modifica del coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, al fine di offrire agli Stati membri la possibilità di indicizzare – al ribasso beninteso – l’importo degli assegni familiari quando i bambini a carico non risultino residenti nello Stato membro in cui il genitore lavoratore soggiorna. Con il pretesto di “tener conto del fattore di attrazione di cui gode uno Stato membro”, il Consiglio europeo ha inoltre ideato un cosiddetto “meccanismo di allerta e salvaguardia”, che dovrebbe far fronte a ipotetiche “situazioni di afflusso di lavoratori provenienti da altri Stati membri di portata eccezionale”.

Uno Stato membro, che desideri avvalersi di tale meccanismo, notificherebbe alla Commissione e al Consiglio l’esistenza di una siffatta situazione eccezionale, di entità tale – si badi bene – da “ledere aspetti essenziali del suo sistema di previdenza sociale”. Tale Stato membro sarebbe così autorizzato  a sbarrare l’accesso dei lavoratori “nuovi arrivati” a tutte le “prestazioni a carattere non contributivo collegate all'esercizio di un’attività lavorativa”, per un periodo totale massimo di quattro anni dall’inizio del rapporto di lavoro.

Ma di cosa si tratta, esattamente? Nel Regno Unito, per fare l’esempio più pertinente, esistono due prestazioni destinate a compensare la perdita di reddito per i lavoratori disoccupati. La prima, di tipo contributivo, è condizionata come consuetudine al versamento di un certo numero di contributi assicurativi in un determinato lasso di tempo, e dura al massimo sei mesi. Scaduti i quali, una seconda prestazione – assistenziale stavolta, e non più assicurativa – può essere erogata in funzione delle condizioni di reddito, ossia di bisogno (tale prestazione assistenziale spetta, di norma, anche a tutti i disoccupati che non hanno diritto alla prestazione contributiva, in ragione per esempio di una carriera lavorativa troppo breve e frammentata).

Ecco, è questa seconda prestazione che potrà essere negata ai lavoratori cittadini di un altro Stato europeo, anche se questi – non è inutile precisarlo – contribuiscono alle casse fiscali e previdenziali come tutti gli altri lavoratori. È ufficiale, a questo proposito, che la Commissione europea aveva in quel momento già predisposto un parere positivo per il Regno Unito, in attesa che questo Paese – qualora i risultati del referendum fossero stati favorevoli al “remain” – avesse deciso di avvalersi di tale meccanismo. In altre parole, la Commissione europea ha già attestato che il Regno Unito è effettivamente sottoposto a un afflusso “eccezionale” di lavoratori provenienti da altri Stati Ue, e che questi stanno già significativamente ledendo “aspetti essenziali del suo sistema sociale”. E questo nonostante le stime – ivi comprese quelle fornite dalla stessa Commissione europea – provino esattamente il contrario.

Insomma, ciò che colpisce oltre misura l’intelligenza delle persone è che l’effetto di quest’ondata di misure restrittive dei diritti sociali sia, a conti fatti, esclusivamente demagogico. Il loro reale impatto sulle finanze pubbliche sarebbe infatti trascurabile. Nel Regno Unito, su 13 milioni di bambini beneficiari di assegni familiari, meno del 0,3% è residente in un altro Stato membro. E dei 7,5 milioni di famiglie che percepiscono assegni per figli a carico, per una spesa complessiva pari a 11,5 miliardi di sterline, appena 20mila hanno bambini residenti all’estero. In totale, 34mila bambini su 13 milioni. In Germania, per fare un altro esempio, dei 14 milioni di bambini aventi diritto alle prestazioni familiari, solo lo 0,6% vive all'estero.

Una comunicazione della Commissione europea del 25 settembre 2014 aveva già dimostrato, cifre alla mano, come la popolazione “straniera” versi nelle casse dei Paesi ospitanti, sotto forma di imposte e contributi,  più di quanto non riceva sotto forma di prestazioni e aiuti vari. Queste conclusioni si basavano su un rapporto indipendente realizzato da Icf Ghk per la stessa Commissione nel 2013, secondo il quale la presenza degli stranieri tra i beneficiari delle prestazioni sociali sarebbe in realtà molto bassa: meno dell’ 1% in Austria, meno del 5% in Germania e Paesi Bassi, solo per citare alcuni casi. E per quanto riguarda la spesa nazionale per l’assistenza sanitaria, il costo attribuibile alla popolazione straniera è solo lo 0,2% in media.

Un’altra indagine dell'University College di Londra del novembre 2014, basato su dati ufficiali del governo inglese, ha confrontato il contributo fiscale netto dei cittadini britannici con quello dei vari gruppi di stranieri presenti sul territorio del Regno Unito. Negli anni tra il 1995 e il 2011, il contributo fiscale netto degli stranieri europei è stato superiore a quello dei cittadini britannici, per oltre il 10%. E ancora: nel giugno 2014, Iza World of Labor ha dimostrato come le singole decisioni in materia di immigrazione non siano state prese sulla base della relativa generosità dei sistemi sociali del Paese ospitante. Al contrario, anche di fronte a un rischio più elevato di povertà, gli immigrati – anche cittadini Ue – mostrano meno dipendenza dal welfare rispetto agli autoctoni. In breve, ancora una volta versano nelle casse dello Stato ospitante più di quanto ricevono. E anche quando gli immigrati beneficiano del welfare più intensamente dei cittadini nazionali, questo è dovuto alle differenze sociali, piuttosto che allo status di immigrazione di per sé.

Dunque, il luogo comune secondo cui l’immigrazione approfitta della generosità dei sistemi sociali dei Paesi ricchi è ampliamente smentito dalle statistiche internazionali. Secondo il Rapporto Ocse 2013 sulle migrazioni internazionali, la differenza tra i contributi sociali e fiscali versati dagli immigrati e le prestazioni da questi percepite è sempre a vantaggio dei Paesi ospitanti e a discapito dei migranti. Nel Regno Unito, il contributo fiscale netto delle famiglie d’origine straniera oscilla, secondo i casi, tra i 2.600 e i 12mila euro l’anno (l’Italia è su importi analoghi). È triste constatare, insomma, che quando l’annuncio di una o l’altra misura è più importante della sua presunta efficacia, le cifre e gli argomenti razionali non impediscono il proliferare di discorsi e decisioni politiche reazionari e xenofobi, tanto demagogici quanto infondati. (3/continua)

Carlo Caldarini è direttore dell’Osservatorio Inca Cgil per le politiche sociali in Europa