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Tra le preoccupazioni principali dei sindacati e dell’opinione pubblica di fronte al negoziato sul Ttip c’è senz’altro quella per il rispetto sostanziale della democrazia. Il governo italiano, presidente di turno dell’Unione, ma anche il commissario uscente al Commercio Karel De Gutch, si sono intestati il merito di aver fatto pubblicare il testo del mandato negoziale dato alla Commissione. Un testo, per la verità, che era trapelato fin dalla primavera scorsa nelle maglie del web, diffuso da una delle tante Ong che fanno da “cane da guardia” al lavoro della Commissione stessa. La nuova commissaria Cecilia Malström, da parte sua, fin dall’audizione preliminare al Parlamento europeo, ha dichiarato di voler fare della trasparenza la sua bandiera. Ma resta il fatto inoppugnabile che il negoziato è in corso da mesi, sostanzialmente in maniera del tutto segreta.
Il Parlamento europeo e i Parlamenti dei 28 paesi dell’Unione – per rimanere da questa parte dell’Atlantico – sono sostanzialmente esclusi da ogni conoscenza dello stato reale delle trattative, dal dibattito, dalla possibilità di influenza sull’andamento del negoziato. Perfino i governi dichiarano di non conoscere il contenuto reale delle proposte negoziali sul tappeto, anche di quelle avanzate dal commissario europeo. I Parlamenti saranno probabilmente chiamati a un voto a negoziato concluso, con la formula del “prendere o lasciare”, mentre la commissione Inta (Commercio estero) del Parlamento europeo e i componenti del “gruppo consultivo” della società civile, creato ad hoc dalla Commissione, hanno limitato accesso alla cosiddetta “reading room”, dovo possono, appunto, soltanto scorrere i testi fin qui elaborati dai negoziatori.
Ben altro accesso, se non ai documenti, a un rapporto confidenziale e stretto con la Dg Trade (la direzione commercio della Commissione) hanno senz’altro le centinaia di lobbisti delle imprese europee che, come i loro colleghi d’oltreatlantico, sono tra i principali sponsor del Trattato. Ma i pericoli per la democrazia e lo spazio di decisione dei governi, secondo le procedure democratiche di ciascun paese, sono ben più profondi e duraturi almeno per due dei meccanismi che il Ttip intende promuovere: l’istituzione di un Consiglio per la cooperazione regolativa (Regulatory cooperation council-Rcc) e un meccanismo di regolazione delle controversie investitore-Stato (Investor-State dispute settlement-Isds).
Il Consiglio – organismo nominato dalla Commissione europea e dall’amministrazione Usa – dovrebbe sorvegliare sulle misure di “armonizzazione” delle legislazioni e delle regolazioni delle due parti e “prevenire” ogni futura modifica che possa avere conseguenze negative sulle decisioni di liberalizzazione commerciale contenute nel Ttip. In altre parole, l’attuale corpus legislativo e regolamentare dell’Unione sarà sottoposto all’armonizzazione-convergenza con le leggi e i regolamenti statunitensi. Così, ogni futura iniziativa legislativa nell’ambito dell’Unione europea dovrà preventivamente essere vagliata da questo organismo tecnico e autoreferenziale, privo di alcun mandato democratico.
Il cosiddetto Isds è invece un meccanismo di arbitrato internazionale che sfugge a tutte le norme e i controlli di un normale sistema giudiziario. Introdotto fin dagli anni cinquanta in molti Trattati bilaterali sugli investimenti (Bit), con la necessità di “proteggere” gli investitori occidentali in paesi dove si presumeva il sistema legale fosse non particolarmente equo ed efficace, si giustificava con la necessità di dare all’investitore straniero le stesse opportunità dell’investitore locale di fronte allo Stato e alla legge, evitando qualsiasi discriminazione.
In realtà, ammesso che le motivazioni fossero valide, l’esplosione nell’ultimo decennio delle cause intentate da potenti multinazionali contro diversi Stati – incluse le cosiddette democrazie avanzate – ha dimostrato che il meccanismo consente alle sole multinazionali (anche per via degli enormi costi che, sulle controversie, permettono di lucrare a 4 o 5 ben avviati studi legali basati a Londra o Washington) di chiamare a giudizio Stati e governi – con risarcimenti di centinaia di miliardi di euro – perché provvedimenti di legge democraticamente definiti nell’interesse dei cittadini danneggerebbero, in maniera diretta o indiretta, i profitti che quelle imprese avevano preventivato all’atto dell’investimento.
Solo per citare alcuni recenti esempi, la Germania è stata chiamata in causa dalla Vattenfall per i danni che avrebbe subito dalla decisione di avviare la chiusura delle centrali nucleari; e l’Australia dovrebbe risarcire la Philip Morris per la legge che prescrive di indicare sui pacchetti di sigarette la nocività del fumo; mentre l’Egitto deve rispondere a una richiesta di danni presentata dalla multinazionale francese Veolia, per aver deciso l’aumento del salario minimo.
Di fronte al rifiuto di alcuni governi (Germania e Francia; il governo italiano – secondo quanto riferito dal viceministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda – avrebbe cambiato opinione, passando a una posizione favorevole, dopo l’iniziale rifiuto), la Commissione ha aperto una consultazione pubblica sull’Isds nel Ttip, della quale però non sono stati ancora resi noti i risultati. Ma un meccanismo Isds è rintracciabile anche nel Ceta, il trattato internazionale appena concluso tra l’Unione e il Canada, che ha reso ancora più evidenti i propositi della Commissione e del Consiglio europeo.
La Ces (la Confederazione europea dei sindacati) ha denunciato il trattato e ha dichiarato la sua totale opposizione all’inserimento dell’Isds nell’eventuale accordo Ttip, così come alla “lista negativa” sui servizi e alla totale debolezza e inesigibilità del capitolo sui diritti del lavoro. Una posizione sostenuta fermamente dalla Cgil, che chiede di respingere con decisione ogni tentativo di inserimento di “nuovi modelli” di Isds. Secondo il sindacato di corso d’Italia, non esiste alcuna ragione per accettare ipotesi di particolare “protezione” degli investimenti Usa in Europa; né si può in alcun modo sostenere che i sistemi legali europeo e statunitense non garantiscano efficace protezione degli investitori stranieri contro eventuali discriminazioni. E del resto, né il governo Renzi, né il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, né tanto meno Emma Marcegaglia (ora presidente di BusinessEurope, l’associazione degli imprenditori europei), hanno saputo spiegare come e perché le piccole e medie imprese italiane – che secondo loro avrebbero mirabili vantaggi dalla firma del Ttip – possano non sentirsi gravemente discriminate da un meccanismo che consente ai grandi investitori stranieri di ergersi a potere contro gli Stati nazionali.
Ma non sono solo le preoccupazioni di natura democratica ad alimentare quelle che i fautori del Ttip si ostinano a chiamare “paure irrazionali” dell’opinione pubblica (le critiche di sindacati e lavoratori non sono nemmeno prese in considerazione). A mettere tutta l’operazione sotto una cattiva luce, concorrono anche le previsioni di crescita economica derivanti dall’accordo: le migliori – così come propagandate dalla Commissione – si riducono, secondo l’efficace definizione di un europarlamentare della sinistra tedesca, “a una tazzina di caffè per ciascuno a settimana” (2,50 euro, stando a uno degli studi più improntati all’ottimismo). Un caffè davvero amaro. E piuttosto caro.
* Coordinatore Dipartimento Politiche Globali Cgil