Sciopero generale di otto ore il 14 novembre nel centro-nord, il 21 nel centro-sud, il 25 in Sardegna, il 27 in Sicilia, con manifestazioni a Milano, Napoli, Cagliari e Palermo. Questi gli appuntamenti decisi dalla Fiom nel quadro della mobilitazione avviata dalla Cgil contro il governo Renzi – mobilitazione che culminerà, com’è noto, nello sciopero generale del 5 dicembre –. Maurizio Landini, nella possibilità che il nuovo esecutivo, dopo vent’anni di berlusconismo e la pessima prova dei tecnici, potesse finalmente aprire una fase diversa della vita del paese, aveva mostrato a suo tempo una certa fiducia. La messa in mora dell’articolo 18, il Jobs Act e la Legge di stabilità hanno seccamente smentito l’impressione iniziale; le manganellate agli operai delle Acciaierie di Terni – e ad alcuni dirigenti della Fiom –, lo scorso 29 ottobre, si sono incaricate poi di mostrare, in maniera tutt’altro che simbolica, dove si finisce quando un giorno sì e l’altro pure si spara alzo zero sul sindacato. Due, allora, e strettamente legate l’una all’altra, le prime domande che gli poniamo: perché questo governo non va? E ancora, qual è la posta in gioco dello scontro in atto?

Landini Questo governo non va, anzi va malissimo, perché da un lato, sul piano sociale ed economico, ha accolto le posizioni di Confindustria: l’idea che, anziché investire in qualità, ricerca, innovazione, la ripresa vada perseguita – e sia concretamente possibile – attraverso la riduzione di salari e diritti; dall’altro perché, in questo quadro, non mette in discussione i vincoli europei. La posta in gioco, dunque, sono i diritti di chi lavora, non solo il ruolo del sindacato. E il modello di sviluppo del paese.

Rassegna Il governo Renzi, in sostanza, non rappresenta gli interessi dei lavoratori: una formula chiarissima, che hai adoperato di recente. C’è un problema, però. Che la sponda politica, chi possa rappresentare con efficacia gli interessi del lavoro dipendente, non si vede. Basteranno la mobilitazione, gli scioperi, per invertire la rotta?

Landini Prima della rappresentanza politica c’è una responsabilità dell’azione sindacale. E il problema della sua autonomia. I governi Monti e Letta, ma prima ancora quelli di Berlusconi, non hanno trovato nel sindacato una capacità di contrasto adeguata: va riconosciuto. Da questo punto di vista quel che ha messo in campo la Cgil è molto, molto importante: non solo la difesa dell’articolo 18 ma una piattaforma complessiva, una proposta, che tocca tutti i grandi temi che riguardano la condizione dei lavoratori, dei giovani, dei pensionati e, insieme, le strade per uscire dalla crisi.

Rassegna L’autonomia passa per la capacità di proposta…

Landini …ed è la condizione per allargare il consenso tra i lavoratori. Tutto questo mentre siamo di fronte a una crisi politica. Come ben sappiamo, il governo Renzi non è stato eletto. Ed è già un primo problema. Ma c’è di più: le sue decisioni, l’esecutivo le prende mettendo in discussione di continuo il ruolo del parlamento. Certo, quello della rappresentanza politica è un problema aperto. Ma non è a questo che l’azione del sindacato può dare una risposta. Il sindacato si deve adoperare perché gli interessi del lavoro tornino centrali, e vengano vissuti, sentiti, come l’interesse generale del paese. Con le iniziative e le decisioni conseguenti a livello di governo. Il contrario di quanto accade da un bel po’ di anni a questa parte.

Rassegna In Italia, si è detto, sarebbe in atto un vero e proprio sciopero degli investimenti. Ci vorrebbe una politica industriale, ma guai a parlarne: viene subito in mente il pubblico e il pubblico è il male assoluto. Intanto il sindacato è costretto a mere lotte difensive: una lunga teoria di fabbriche dove tutto quel che si può fare – che naturalmente non è poco – è battersi giorno per giorno contro delocalizzazioni, chiusure, licenziamenti. Ma può bastare?

Landini La pura e semplice difesa può essere solo un accompagnamento del processo di deindustrializzazione in atto. Certo che non basta. Il tema della politica industriale è decisivo. Pensare che licenziamenti e riduzione dei salari – fra l’altro in un panorama frastagliato e complesso, che va dalle aziende piccole e sottocapitalizzate alle grandi multinazionali – possano aiutarci a rimettere in moto l’industria è completamente sbagliato. È necessario un piano d’investimenti pubblici e privati: lo Stato innovatore che interviene nell’economia con un piano strategico. E per questo, tornando a quel che dicevo prima, bisogna mettere in discussione i vincoli europei.

In più, c’è un problema di incentivazione: dei contratti di solidarietà e di riduzione degli orari di lavoro. Noi abbiamo da un lato gli orari più alti d’Europa e l’età pensionabile che sale, dall’altro una disoccupazione crescente: un grande paradosso. Occorre redistribuire il lavoro. C’è poi un tema che nel nostro paese è decisivo: il tema della legalità.

L’alto tasso di corruzione e il potere acquisito dalla criminalità organizzata sono un problema gigantesco per la nostra economia. E gli appalti al massimo ribasso, per dirne una, non aiutano certo a tutelare i diritti dei lavoratori. Legalità, dunque, politica industriale e redistribuzione del lavoro. Se c’è questo si riapre una prospettiva. Se la scelta è un’altra, ridurre occupazione, salari e diritti, l’Italia ne esce completamente ridimensionata.