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Se dovessi descrivere le politiche sanitarie dai governi di centro-destra in poi, direi che dopo di loro vi è un esecutivo, quello di turno, che ogni anno fa saltare con il tritolo uno dei tanti pilastri che tengono su il palazzo della sanità. Anziché minare tutti insieme i pilastri per farlo crollare con un bel botto (controriforma e cambio di sistema), si preferisce programmarne la demolizione (controriforma graduale e privatizzazione retard).
Questa politica si chiama definanziamento progressivo, vale a dire la riduzione graduale della spesa sanitaria in rapporto al Pil calcolata al 2020 di un punto percentuale. Il suo scopo finale è comunque, se non demolire in toto, quanto meno ridimensionare un grande palazzo e ridurlo a una dependance. Perché? Forse per motivi ideologici? O per favorire la speculazione finanziaria? Siamo al trionfo del neoliberismo?
Personalmente, non credo a questo genere di spiegazioni come primo movens, penso piuttosto che almeno da Berlusconi e da Monti in avanti le politiche economiche hanno dimostrato in rapporto alla crisi di aver sempre più bisogno di disporre delle risorse destinate alla sanità e, più in generale, destinate alla spesa pubblica. Penso cioè che la spesa pubblica sia la controparte della spesa sanitaria ed entrambi, almeno per Renzi, le controparti della crescita economica.
Il nesso di causalità tra i tagli lineari alla sanità e la riduzione delle tasse è abbastanza evidente, come è evidente la necessità, sempre per il presidente del Consiglio, di raggranellare risorse per finanziare quello che per lui rappresenterebbe un’eventuale crescita del Paese. Per la sanità, l’idea di ridimensionarla è abbastanza giustificata da una spesa che per quanto bassa rispetto agli equivalenti europei è comunque carica di diseconomie, di antieconomie e di abusi.
Sul piano della giustificazione politica, Renzi ha buon gioco quando dice che abbiamo gli sprechi e che in una fase protratta di crisi non gli si può chiedere di rifinanziarli. Sta di fatto che finora la cosiddetta spending review non ha funzionato a causa dell’inettitudine delle Regioni (ma non solo) e che, alla fine, gli argomenti che restano sono quelli dei tagli lineari, gli unici veramente efficaci a far crollare uno dopo l’altro i pilastri della sanità.
Se dovessi specificare la caratteristica di fondo della legge di stabilità ora in discussione in Parlamento, direi che la spending review (vale a dire la possibilità di bonificare la spesa dalle diseconomie intervenendo sui processi e sui sistemi di cura) esce di scena, come se il governo prendesse atto dell’impossibilità con queste Regioni e queste aziende di praticarla, mentre fa il suo ingresso una sorta di definanziamento coatto, cioè limiti coercitivi posti a ogni livello del sistema, per costringerlo a risparmiare.
Questa legge di stabilità a differenza delle altre che si limitavano sostanzialmente ai tagli lineari del Fondo sanitario nazionale, estende la logica dei tagli lineari a tutto il sistema: • riducendo il Fondo sanitario nazionale rispetto a quanto pattuito con il Patto per la salute (10 luglio 2014) di almeno 4 miliardi (da 115 miliardi e 444 milioni a 111 miliardi). È quella che il ministro dell’Economia e delle finanze Pier Carlo Padoan con un giro di parole ha definito non una riduzione, ma un “aumento minore del previsto”.
• Chiamando di nuovo le Regioni a concorrere “nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza” al risparmio della finanza pubblica: 8 miliardi per il 2016, 3.980 milioni di euro per il 2017 e 5.480 per ciascuno degli anni 2018 e 2019. Lo stesso meccanismo che alla sanità quest’anno è costato 2 miliardi e 350 milioni; • estendendo a ogni livello della governance il concetto di “scostamenti”, obbligando tutto e tutti al rientro e definendo gli scostamenti stessi in rapporto a parametri relativi a volumi, qualità ed esiti delle cure. Quindi, introducendo una rigidissima standardizzazione delle prestazioni dei servizi.
• Estendendo lo strumento del piano di rientro a ospedali e aziende che, se non approvato, causerà l’automatica decadenza del direttore generale; • introducendo i “prezzi base”, come li ha definiti testualmente Renzi, quelli che erroneamente sono indicati come “costi standard”. I “prezzi base” riguardano farmaci e dispositivi medici, in genere sono prezzi di riferimento più bassi del loro valore mediano, per cui il rischio che si corre è obbligare gli operatori a impiegare per la cura delle malattie non i mezzi più appropriati al malato, ma quelli meno costosi; • confermando la decapitalizzazione del lavoro, quindi sostanzialmente tutte le politiche in essere, per ridurre il costo del capitale professionale della sanità.
Ecco perché definisco questa legge di stabilità “definanziamento coatto”: essa impone a tutto il sistema sanitario limiti coercitivi non negoziabili, ai quali “per forza” il sistema dovrà adeguarsi. Ciò avviene come se si attuasse una manovra a tenaglia: a livelli “macro” in alto e al centro (il Fondo sanitario nazionale) e a livello “micro” in basso, fino alla periferia del sistema (scostamenti, ripiani e prezzi base). La sanità è “attanagliata”, cioè compresa tra due rampi, due limiti e quindi obbligata ad autoridursi.
Se questa è l’analisi, resta da chiarire cosa fare. Fino a ora gli unici che sono scesi in piazza (si fa per dire) sono i medici: essi da questo attanagliamento rischiano di uscirne come dei “non medici”, cioè di essere ridotti a poco più di trivial machine, quindi operatori eteroguidati e obbedienti, come se fossero lavatrici. Se ciò avverrà, per i malati e per tutta la società sarà un danno incalcolabile, perché avranno una medicina standard pensata per malati standard e per costi standard, ovviamente al ribasso.
Per essere veramente curati per quello che si è e si ha si dovrà pagare. Allora? In questi casi ci si mobilita: secondo il mio parere, la sanità pubblica vale uno sciopero generale del settore. Ma se le politiche economiche che stanno demolendo la sanità hanno ragioni forti, è necessario mobilitarci contrapponendo altre ragioni altrettanto forti, che non possono essere solo le petizioni di principio sui diritti e sull’articolo 32 o sui contratti.
All’idea di sostenibilità del governo, quella che sta ammazzando la sanità pubblica, bisogna contrapporre un’altra idea di sostenibilità, quella che al contrario rende compossibili tanto le politiche economiche che la tutela dei diritti. Se è così, non ci resta che una strada, fare del lavoro il vettore di cambiamento più importante per combattere diseconomie e antieconomie.
Ma per fare questo ci vuole una piattaforma che sia ispirata da un pensiero riformatore, che parta dal lavoro per cambiare il sistema, dal momento che finora, per quanto possa sembrare paradossale, il lavoro quale paradigma dai sistemi mutualistici a oggi è sempre stato una variabile indipendente dai cambiamenti di sistema. Siamo passati dalla mutua all’universalismo, ma a paradigmi professionali, a organizzazioni del lavoro sostanzialmente invarianti, limitandoci sostanzialmente a riparametrare solo il salario. Oggi neanche più quello riusciamo a fare.
Il vero dramma non è questa manovra e i problemi che essa crea, ma è quello che ho sintetizzato in un titolo di un mio libro “Il riformista che non c’è, le politiche sanitarie tra invarianza e cambiamento” (2013). Il problema non è la legge di stabilità, che sulla sanità sarebbe del tutto risolvibile, ma il solutore, che rispetto a quei problemi dovrebbe esistere, ma non c’è. Senza un pensiero riformatore che cambi il lavoro non si vince il pensiero controriformatore che sta cambiando la sanità. Oggi è impossibile restare fermi o, peggio, tornare in dietro.