Alla Saclà di Asti si allunga la lista dei licenziamenti “sospetti” per “giustificati motivi oggettivi”. Dopo i tre lavoratori già espulsi dal 1° dicembre  e i 4 dello scorso anno,  il 12 dicembre, l’azienda ha licenziato un altro dipendente, anch’esso come i suoi colleghi affetto da problemi di salute e con limitazioni alla mansione, prescritte dal medico competente. L’unica differenza è che l’ottavo dipendente non risulta iscritto a nessun sindacato; una decisione che comunque non allontanerebbe il sospetto di un accanimento contro sindacalisti, soprattutto della Cgil, impegnati nel denunciare condizioni di lavoro insalubri. Purtuttavia, la motivazione del licenziamento  resta la stessa: “giustificati motivi oggettivi” derivanti dall’accorpamento di due linee produttive. 

Ma comunque l’azienda, che dichiara di non essere in crisi, ha “pescato” sempre tra quelli dichiarati a vario titolo inidonei a seguito di infortuni o malattie professionali. E  l’ultimo caso non fa eccezione. ”In quattordici anni di anzianità – riferisce Pierluigi Bione, della segreteria Flai di Asti – il lavoratore ha cambiato più mansioni, fino a finire nella linea produttiva che oggi l’impresa astigiana ha deciso di accorpare, seguendo lo stesso copione recitato per gli altri dipendenti già licenziati”. 

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La Saclà di Asti perciò anche senza alcun accenno formale alla inidoneità alla mansione, utilizza questo strumento per selezionare gli elementi “utili” alla produzione aggirando l’ostacolo della normativa che le imporrebbe di trovare soluzioni alternative prima del licenziamento, ricollocando il personale sottoposto a limitazioni alla mansione per motivi di salute. “Un modo subdolo che serve a mascherare provvedimenti illegittimi sotto il profilo giuridico – spiega Morena Piccinini, presidente dell’Inca – e che rivelano un fenomeno sotterraneo e insidioso ben più esteso, frutto dell’evoluzione dell’impianto normativo sui licenziamenti, reso fragilissimo dalle modifiche sul mercato del lavoro, a cominciare da quelle introdotte con la legge di riforma del 2012 (n.92) e proseguite con il Jobs Act”. 

In effetti, la letteratura giurisprudenziale sull’argomento è abbastanza nutrita e si appoggia sull’articolo 42 del dlgs 81/08, che prevede l’obbligo del datore di lavoro di adibire, “ove possibile”,  il lavoratore, riconosciuto inidoneo alla mansione, ad altre attività equivalenti o anche inferiori garantendogli la conservazione del posto di lavoro. Obbligo che non è mai stato messo in discussione dalla Corte di Cassazione, che è intervenuta più volte ribadendo che il licenziamento deve considerarsi come ultima ratio.

Ma c’è un “ma” tra ciò che la giustizia afferma e una normativa fin troppo lasca, che lascia aperte molte  chance alle aziende. Quel “ove possibile”, previsto dall’articolo 42 del dlgs 81/2008, insieme alle successive modifiche in materia di licenziamenti, che hanno ampliato le possibilità di licenziamenti disciplinari, anche per “eccesso di assenze per malattia”, consentono alle imprese un’ampia possibilità di ricorrervi, senza rischiare alcuna sanzione.  “Con la  riforma del 2012 – sottolinea Paolo Capra segretario della Flai Cgil di Asti – che ha esteso la discrezionalità delle aziende nei licenziamenti individuali si sono moltiplicate le espulsioni di manodopera per eccesso di assenze per malattia o per motivi disciplinari. Solo ad Asti, in pochi mesi se ne sono verificati almeno 20. E non è finita”.  

E infatti la nota impresa conserviera astigiana e il sistema imprenditoriale nel suo complesso lo hanno imparato bene. Prova ne è l’aumento dei licenziamenti registrati dall’Inps nel suo ultimo rapporto, aumentati nei primi 9  mesi  di quest’anno del 4% tra i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, pari al 38% di tutte le cessazioni avvenute nello stesso periodo, di cui il 28% per motivi disciplinari . “Un dato allarmante che si aggiunge al preoccupante silenzio del governo e del Parlamento  sulla normativa che regolamenta i licenziamenti – spiega ancora Piccinini – che così come è stata modificata non tutela affatto i lavoratori, lasciati in balia di sé stessi e che di fatto finisce per legittimare l’assoluta libertà delle imprese di liberarsi della manodopera scomoda”. 

Ma di tutto questo non c’è traccia nelle statistiche ufficiali sull’occupazione. L’Istat, che non è affatto avaro nei dati, si limita a mostrare un paese aggrappato ad una timida ripresa, con un saldo positivo delle assunzioni derivante dagli sgravi contributivi previsti dal Jobs Act, senza riuscire a nascondere però l’amara realtà: una disoccupazione quasi al 12 per cento e oltre due milioni di giovani Neet, che non lavorano e neppure studiano. 

“Se si vuole effettivamente ridurre il fenomeno dei licenziamenti mascherati basterebbe mettere in valore ciò che alcune leggi ci consentono di fare”, osserva Piccinini.Il riferimento è sia al decreto legislativo n. 216/2003 (comma 3 bis), con il quale è stato previsto l’obbligo dei datori di lavoro di adottare “accomodamenti ragionevoli” nei posti di lavoro per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori, sia a quanto è stato disposto nella la legge di stabilità 2014 (n.190) con il  conferimento all’Inail delle competenze in materia di reinserimento e di integrazione lavorativa di questi lavoratori, “da realizzare con progetti personalizzati mirati alla conservazione del posto di lavoro o alla ricerca di nuova occupazione”. “Sono norme ancora poco conosciute – afferma ancora Piccinini – sulle quali l’Inail ha già dato una grande disponibilità ad accompagnare con le proprie risorse i processi di riorganizzazione delle imprese per il reinserimento di questi lavoratori. Occorre quindi che le aziende si rendano conto delle loro  responsabilità verso le persone che si sono fatte male a causa del lavoro svolto”.