Per chi abbia letto il precedente, dal titolo “Non ho l’età. Perdere il lavoro a 50 anni”, il nuovo libro di Loris Campetti può essere considerato un altro viaggio nel mondo dei dimenticati, che questa volta procede non per generazione, ma per categoria, quella degli operai, che da qualche anno in molti si ostinano a ripetere non esista più.

“Ma come fanno gli operai. Precarietà, solitudine, sfruttamento. Reportage da una classe fantasma” (Manni editori, pp. 158, 14 euro) è un’inchiesta condotta nel Nord della penisola, che ascolta e annota le parole dei lavoratori di oggi, offrendo al contempo spazio ad analisi e riflessione a un lettore chiamato a guardare con altri occhi lo specchio della realtà.

Le pagine di Campetti dimostrano che la classe operaia non è affatto scomparsa, men che mai perduta nel rincorrere quel paradiso magnificamente vagheggiato nel celebre film di Elio Pietri; molto più concretamente, e con molte complessità da tener presenti, nel corso di questi anni ha subìto un’evidente metamorfosi o, meglio, come lo stesso autore afferma, è stata costretta a modificare il suo modus vivendi e operandi a causa di un drastico cambiamento della concezione del lavoro, che ha coinvolto il tradizionale sistema produttivo della fabbrica, e di un modello (?) politico da cui si sente sempre più spesso lontana, oltre che tradita.

Il viaggio si snoda dunque tra fabbriche in crisi e non, da Luxottica a Fincantieri, dalla Maserati all’ex Pininfarina, monitorando però anche le nuove forme di lavoro sottopagato e senza tutele che ogni giorno vediamo scorrere sotto i nostri occhi, magari senza accorgercene, come accade quando i rider di Foodora, colosso tedesco attivo in 12 Paesi, bussano alla nostra porta per portarci la cena, in cambio di un cottimo sostituito dall’azienda alla paga oraria, che potrebbe crescere dai 2,70 ai 3,60 euro a chiamata, nel caso in cui la protesta portata avanti da Fausto e gli altri a forza di sit-in, raccolta firme e biciclettate nel cuore di Torino porterà i frutti del misero aumento.

Per onor di cronaca, i cosiddetti sovversivi di questa emblematica storia sono stati tutti licenziati; anzi, come puntualizza lo stesso Fausto, “neanche è stato necessario licenziarci, la società si è limitata a cancellarci dalla sua mailing list”. Un semplice tasto per essere eliminati dal gruppo WhatsApp, e il lavoratore sparisce nel nulla, con la beffa ulteriore dei due amministratori della sede italiana, che per stemperare il caso si sono difesi dichiarando che “quello dei rider non deve essere inteso come un lavoro vero e proprio, ma un modo di coniugare la passione per la bici con l’arrotodanmento delle proprie entrate”. Ma la condizione della maggior parte dei rider italiani è ben altra, e l’unica entrata rimane la chiamata dei loro clienti.

In questo modo, come tra le righe rileva Campetti, “se i genitori dei ragazzi torinesi di Foodora vestivano la tuta blu, loro solcano strade e piazze in divisa aziendale, con meno orgoglio e nessun senso di appartenenza verso il proprio lavoro, a differenza dei padri operai”. Quel senso di appartenenza che un tempo alimentava il sentimento collettivo di una coscienza di classe che ora inevitabilmente si trova a essere frantumata, di pari passo alla frammentazione esasperata quanto demoniaca dei lavori caratterizzanti l’età del turbo-capitalismo a ogni costo, purché tale “costo” risulti sempre a carico dei più deboli.

Proprio da qui nasce una tra le domande più scomode contenute nel volume, che ha tra i suoi pregi quello di non far sconti a nessuno (cfr. il capitolo “Cooperative rosse di vergogna”): sono gli operai, con il voto o il non voto nelle più recenti elezioni, ad aver tradito la sinistra, o piuttosto è la sinistra ad aver abbandonato la sua storica base popolare? Quesito di non poco conto, a pochi giorni da una chiamata alla urne che potrebbe in questo senso certificare un allontanamento ancor più marcato, con tutte le conseguenze del caso.