Quali sono le chiavi di lettura utili per capire il senso del documento presentato unitariamente dalle tre confederazioni sindacali su “Un moderno sistema di relazioni industriali”? Il testo ha suscitato varie reazioni, come peraltro era da attendersi. Qualche volta di apprezzamento. Più spesso di critica, e non solo da parte delle associazioni datoriali, le quali hanno praticato questo loro diritto senza risparmio.

Ma, al di là del giochino infinito se questo testo sia troppo poco o troppo timido (qualcuno lo riterrà sempre tale pregiudizialmente) forse vale la pena di capire se è possibile misurare delle evoluzioni, e se esse vanno nella direzione giusta. Allora, in prima battuta è possibile sostenere che questo testo contiene delle innovazioni notevoli e non scontate, che fanno parlare di un compromesso di profilo importante tra Cgil Cisl e Uil e non di una semplice sommatoria delle loro posizioni. Questa innovazione non aiuta automaticamente la ricerca di un accordo tra le parti: ma apre un margine maggiore di manovra sia per mediazioni efficaci tra gli attori, che per un ruolo potenzialmente rilevante dell’interventismo legislativo. Vediamo quali sono i principali fattori su cui focalizzare l’attenzione.

Contrattazione, una sfida per il paese
Un moderno sistema di relazioni

Cominciamo dal principio e, dunque, proprio dall’impianto del documento. Prevale in esso – e forse è la prima volta in casa sindacale – un approccio sistemico: è l’intero sistema di relazioni industriali che richiede una maggiore istituzionalizzazione e, quindi, un’attività di manutenzione straordinaria e di riforme. Non si tratta di effettuare interventi a spizzichi o su un pezzo soltanto, ma di tenere insieme l’intero circuito: contrattazione, partecipazione, rappresentanza.

In secondo luogo, come abbiamo già accennato, per la prima volta in modo così netto (e condiviso da tutte e tre le organizzazioni) viene messo in campo un riferimento esplicito alla rilevanza – almeno su alcune materie – del sostegno della legge. Non ci troviamo di fronte a un’abdicazione dell’autonomia collettiva, perché il punto di partenza dei ragionamenti consiste sempre nelle proposte degli attori o nei loro accordi (peraltro numerosi negli ultimi anni).

Si tratta invece della presa d’atto che se le parti vogliono dare una completa ed estesa efficacia alle loro scelte solo la legge può svolgere questo compito in pieno, assicurando una messa in opera e un impatto a larga scala. Pensiamo alla misurazione della rappresentatività: senza la legge sarebbe difficile ottenere che siano coinvolte anche le aziende che non si riconoscono nei soggetti firmatari delle intese tra le parti (semplicemente perché non associate a nessuno di essi).

Dunque, la legge fa capolino in quanto assicura quella mitologica “esigibilità” che ogni tanto gli attori richiamano: che i comportamenti e gli adempimenti attesi possano essere, oltre che rispettati, realizzati davvero ed effettivamente generalizzati (cosa che peraltro già avviene da tempo e senza scandalo nel pubblico impiego). Non è una novità per la Cgil immaginare che la legislazione possa svolgere questa funzione e che dunque la contrattazione (e gli accordi) possano molto, “ma non tutto”.

Già con la proposta di “Piano d’impresa” l’Ires nel 1979 – su mandato della segreteria generale – ammetteva che in materia di partecipazione e di democrazia industriale sarebbe stato necessario ricorrere a un intervento normativo, se davvero si volevano raggiungere gli obiettivi di larga portata di programmazione delle politiche industriali che erano immaginati in quella fase. Questa apertura, oggi, si traduce in una serie di ricadute, importanti, ma non scontate, almeno fino a poco tempo fa. Quella più significativa riguarda il nodo della rappresentanza, dal momento che mette fine a una disputa che risale agli anni immediatamente successivi alla Costituzione.

A questo riguardo, per dare forza ai loro orientamenti (in questo caso assunti anche insieme alle controparti attraverso il dispositivo del Testo unico del gennaio 2014), i sindacati hanno ritenuto di concordare sul fatto che sia diventato ormai necessario il ricorso al sostegno della legge. Non perché le parti non abbiano scritto linee guida essenziali su questo oggetto – anche se in modo tardivo e qualche volta farraginoso –. Ma perché gli avanzamenti conseguiti anche negli ultimi tempi non garantiscono da soli un’implementazione adeguata senza il supporto sia operativo che sanzionatorio che può assicurare il tocco della legislazione.

Anche sulla questione partecipazione – un altro nodo ciclico delle nostre relazioni industriali – si registra un’evoluzione che può consentire nuovi sviluppi. Mancava finora una forte voce comune dei sindacati, a causa tanto di divisioni che di disattenzioni. Aver attirato l’attenzione sul carattere prioritario di questo oggetto costituisce quindi già di per sé un sicuro avanzamento. Come pure la sottolineatura che l’obiettivo portante consiste nel favorire un cambiamento nella governance delle aziende: in direzione di meccanismi ‘duali’ (cioè basati, alla tedesca, su due organi), attraverso l’introduzione del Consiglio di sorveglianza, nel quale viene ospitata una larga, forse paritaria, rappresentanza dei lavoratori dipendenti.

Come è noto, su questo versante sono tradizionalmente forti le perplessità e le ostilità del mondo imprenditoriale. Forse però una dosata politica di incentivi finanziari e fiscali potrebbe addolcire la pillola e mostrare che questo percorso di “democrazia industriale” promette potenzialmente ampi benefici anche per la stessa salute delle imprese, oltre che per la qualità del lavoro. Potremmo dunque dire che è aperta – almeno virtualmente – una nuova stagione di legislazione di sostegno. Ma molto sulla sua profondità e sui suoi esiti dipenderà dagli intendimenti del soggetto pubblico.

A questo riguardo, gli interrogativi sono di due tipi. Uno riguarda il metodo, e si riferisce al quesito se il governo si limiterà a raccordarsi alla volontà delle parti (esplicitamente manifesta almeno in materia di rappresentanza) o se invece intenda riservarsi uno spazio più ampio di azione. L’altro riguarda l’approccio migliore da seguire nell’operazione di sistemazione normativa. Sono tante le proposte che circolano in materia, spesso ispirate a una ginnastica iper-regolativa, (cioè risultano troppo minuziose e dettagliate).

In questa direzione spinge soprattutto, accanto  ai classici pallini dei giuristi, il bisogno di rassicurazione e di protezione tradizionale cui si affida una certa parte della cultura della sinistra. Sarebbe invece preferibile muoversi in una direzione più sobria, che operi nel senso del raccordo (con l’autonomia collettiva), oltre che del ritocco.  Un sostegno “leggero” appare più appropriato, allo scopo di evitare un’ipertrofia normativa, anche per evitare tentazioni invasive del legislatore (ammesso che vi siano), che le parti hanno sempre cercato di limitare, e anche perché questa direzione di marcia assicura probabilmente risultati meno faticosi da raggiungere e più stringenti negli esiti.

A questo punto, si tratta di vedere se si arriverà a un ridisegno condiviso, e di quale portata, dell’assetto contrattuale, al di là delle schermaglie e delle contrapposizioni di questi giorni. Sarebbe bene che entrambe le parti pensassero in grande: il sistema contrattuale funziona bene non solo se protegge i lavoratori o rassicura le imprese, ma se riesce ad accompagnare e rafforzare il dinamismo del sistema economico nella chiave di un miglioramento della competitività. Sarebbe quindi augurabile non uno “scambio bloccato”, ma un vero patto per l’innovazione.