“Sperimentiamo un mondo nuovo”. Queste le parole con cui la presidente del Friuli Venezia Giulia e vicesegretaria nazionale del Pd Debora Serracchiani ha commentato, una settimana fa, l’approvazione della nuova legge regionale sul reddito di base. Legge che ha fatto notizia non soltanto per i suoi contenuti, che fanno del Friuli un laboratorio avanzato a livello nazionale, ma anche per il sì del Movimento Cinque Stelle, che ha votato la norma, schierandosi con il Pd e le altre forze di maggioranza, a conclusione di un lungo percorso politico e legislativo, partito proprio da una proposta targata M5S, ripresa e parzialmente recepita nel disegno di legge della maggioranza.

Di primissimo piano anche il contributo della Cgil, che già nel 2013 aveva fatto del reddito di base una delle misure chiave del suo Piano regionale del lavoro e che all’inizio di quest’anno, per sollecitare l’accelerazione dell’iter legislativo della misura, aveva presentato a sua volta lo schema dettagliato di una proposta di legge, realizzata in collaborazione con l’Ires Friuli Venezia Giulia e tenuta a battesimo nel febbraio scorso a Udine alla presenza della segretaria generale nazionale Susanna Camusso.

Se Serracchiani e maggioranza regionale insistono sul concetto di sperimentazione non è soltanto perché da queste parti sanno di muoversi su un territorio molto dibattuto, ma in gran parte inesplorato, soprattutto in Italia, ma anche per la consapevolezza di fare i conti con una crisi che allarga fortemente la forbice tra potenziali beneficiari e risorse a disposizione. Quelle “fresche”, stanziate dall’ultima Finanziaria regionale, ammontano infatti soltanto a 10 milioni, e i quasi 30 milioni di dotazione prevista per il biennio 2015-2016 sono soprattutto il frutto di un’opera di accorpamento e razionalizzazione di misure regionali già attive in materia di welfare e politiche per il lavoro.

Nasce da questo quadro di riferimento il limite di reddito molto basso fissato come asticella massima per accedere al beneficio, 6.000 euro Isee, e la previsione di un sostegno massimo di 500 euro per nucleo familiare, erogabile per un periodo massimo di 12 mesi, eventualmente prorogabili a 24. Le previsioni sono di un beneficio medio di poco inferiore ai 200 euro, con una platea di beneficiari stimata in circa 10.000 nuclei familiari. Più che di una misura di carattere universalistico di contrasto alla povertà e al disagio, per la quale non esistevano le condizioni, siamo quindi di fronte a uno strumento che punta ad aumentare le tutele delle fasce più deboli e più esposte alla crisi, attraverso uno stretto collegamento tra assistenza e politiche attive per il lavoro.

La stessa logica che ispirava la proposta della Cgil regionale, convinta che in mancanza di questo collegamento tra welfare e politiche per il lavoro qualsiasi sperimentazione in materia di reddito di base, reddito minimo o di cittadinanza sarebbe stata destianta a naufragare. “È stato trovato un equilibrio accettabile tra incentivo al lavoro e assistenza ai bisognosi”, spiegano il segretario generale della Cgil regionale Franco Belci e la responsabile delle politiche del welfare Orietta Olivo, senza nascondere la soddisfazione per una norma che può segnare positivamente l’intera legislatura, sia pure approvata oltre due anni dopo l’insediamento dell’attuale maggioranza, che aveva fatto del reddito di base uno dei cavalli di battaglia della sua campagna elettorale.

Le modalità di accesso alla misura e il suo funzionamento saranno più chiare solo con l’approvazione del regolamento attuativo, atteso entro agosto. Già chiari però, oltre ai criteri economici per l’accesso ai benefici e le erogazioni, i principi ispiratori: da un lato, lo stretto legame tra il sostegno al reddito e un vero e proprio patto per il reinserimento lavorativo, con l’adesione obbligata a percorsi di formazione e riqualificazione e, dall’altro, un modello organizzativo fortemente decentrato sul territorio, con i Comuni che faranno da sportello e uno stretto legame con i centri territoriali per l’impiego.