E così è arrivato il giorno tanto atteso, il giorno della festa, della gioia, prima ancora di quanto annunciato nei giorni della paura, dello sconforto e dell'apprensione. Sono risaliti tutti, in buone condizioni di salute, migliori di quanto ci si attendesse, sono risaliti dalle viscere della terra, catapultati nel mondo che è a loro apparso diverso da come lo avevano lasciato, forse irriconoscibile per la felicità e l'esultanza che i loro familiari ma soprattutto il loro presidente Sebastián Piñera, di fronte alle telecamere dell'intero pianeta, aveva allestito. Sono stati acclamati eroi del popolo cileno, a lungo protagonisti di un reality che non ha pari per un incidente di lavoro. Per loro il governo ha creato un evento mediatico enorme, superiore a quello realizzato dopo il terremoto del febbraio che ha stroncato migliaia di vite, distrutto e reso alla miseria interi territori cileni. Siamo felici anche noi – inutile dirlo – per come la vicenda si è conclusa, abbiamo esultato come tutti.

Nei lunghi, terribili giorni dell'angoscia, a molti che vivono nel territorio minerario delle Colline Metallifere, nella provincia di Grosseto, di fronte a questa spettacolarizzazione, di sicuro eccessiva, sono venute in mente i ricordi e le immagini del povero Alfredino Rampi, perché anche allora quella vicenda venne trasformata in uno spettacolare evento mediatico che alla sua conclusione ci lasciò ancora più sgomenti. Alfredino, il bimbo più forte d'Italia, come venne chiamato, era il giugno 1981, era caduto in un pozzo artesiano rimasto aperto nella campagna di Vermicino, vicino Roma. Un microfono calato nel pozzo diffondeva i lamenti agghiaccianti del piccolo e le grida strazianti della madre. Il suo pianto commosse l'Italia, entrò in tutte le case, la sua vicenda divenne un fenomeno mediatico unico, in cui la morte diventò la normalità, il dolore lo spettacolo, la sofferenza l'osceno fermento dell'ascolto. Alfredino non riuscì nel miracolo che tutti attendevano, morì avvolto nel fango di un cunicolo gelido scavato senza permessi e lasciato senza protezioni.

Saranno, un mese dopo la disgrazia, i minatori di Gavorrano – Colline Metallifere, appunto – a recuperare quel corpo. Una squadra di esperti minatori si portò nel luogo, con le attrezzature adatte, ma sopra ogni cosa con la perfetta conoscenza della terra, della sua capacità di resistenza, innanzitutto ricchi dell'esperienza di chi nella vita, come talpe, aveva sempre scavato, fatto buchi, raggiunto il fuoco e l'acqua, inesauribili fonti di mistero e di vita. Di questo triste epilogo avevamo inquietudine nelle Colline Metallifere, le tante tragedie minerarie che hanno tracciato la storia di questo territorio hanno infatti lasciato nella comunità un senso di scetticismo difficile da cancellare.

Chi conosce e ha vissuto la miniera sa che questa non ti impronta all'ottimismo, tutt'altro, la miniera è il buio e la paura assieme.

Scrive, giù dall'inferno, da settecento metri sotto la terra, uno dei minatori cileni: "Cara moglie non so per quale ragione non sono ancora impazzito, dormiamo sul fango, qui intorno è tutto bagnato, non abbiamo magliette, solo pantaloni e stivali, è tutto buio, ho la gastrite, siamo stati quindici giorni mangiando un cucchiaio di tonno ogni quarantotto ore aggrappandoci alla vita, gli altri giorni solo acqua…".

Un altro ancora scrive "Non ti dirò bugie, qui sotto stiamo malissimo, è pieno d'acqua, sopra di noi la montagna si muove e se ci fosse un altro crollo non avremmo molto spazio dove scappare. Cerco di essere forte ma non è facile. Quando mi addormento a volte sogno di essere in un forno e quando mi risveglio mi ritrovo imprigionato in questa oscurità eterna che ogni giorno mi sfinisce. Sopravvivrò per voi, fino alla fine, ma non raccontare nulla di tutto questo a nostra figlia". Mani tremolanti che scrivono su biglietti sgualciti e sporchi di fango, che ci raccontano quanto sia dura la miniera ma anche quanto siano arretrate quelle miniere. Leggendo quanto i minatori cileni riferiscono credo di non prendere una cantonata nell'affermare che la loro condizione di lavoro attuale non si differenzi molto da quella che era dei nostri minatori negli anni cinquanta e sessanta.

Ma la miniera, e il lavoro in miniera soprattutto, che cos'è? Di sicuro in molti nelle lunghe trasmissioni televisive si saranno posti questa domanda. Una risposta, anche se incompleta, cerco di darla ritornando alle decine e decine di interviste che in passato ho fatto ai minatori delle Colline Metallifere che hanno lavorato negli anni cinquanta e sessanta nelle miniere di pirite a Niccioleta e Boccheggiano e nella miniera di carbone di Ribolla. Già ti prendeva la paura, mi riferivano, da quando alle spalle avvertivi quel rumore sinistro che chiudeva il cancello della "gabbia" che ti avrebbe trasferito laggiù a meno 240. E poi, ricordano, la velocità e i sobbalzi che ti gettavano l'uno contro l'altro.

Ma nessuno diceva nulla, silenziosi i minatori uscivano da quella gabbia per portarsi al cantiere di lavoro, non un saluto o un cenno, soli con l' angoscia che li avrebbe seguiti per tutta la "gita", un'angoscia dalla quale sapevano di potersi liberare solo il giorno che non sarebbero più scesi giù. Neppure i più anziani riuscivano a togliersi di dosso la paura della miniera. L'ultimo pane La miniera fa paura, è contro natura, ti inghiotte giù nelle viscere della terra, in quelle gallerie piene di fumi sempre più densi e simili a una nebbia traditrice rotta solo dalle opache luci, in quel rumore senza tregua e assordante, nel calore reso ancor più soffocante dall'umidità e dal sudore che ti cola e che ti si appiccica al corpo e ai panni formando un tutt'uno con la polvere, una polvere densa e rugosa.

L'aria grossa e pesante pare mancarti, ti sembra di soffocare, quella poca che circola spesso è viziata, e poi l'acqua al piede, quei piedi sempre umidi, appesantiti dagli stivali e dal fango, che facevi difficoltà a sollevarli e li sentivi pesanti, piedi che apparivano come un ingombro da cui avresti voluto liberarti. Le gallerie, le volte, quel senso di stupore e di debolezza che ti prendeva, che ti faceva sentire piccolo, indifeso, dove avevi bisogno della tua squadra e di urlare a tutti la tua presenza. Giù sottoterra non si parla, si urla. Ma poi, quando la miniera si accheta, quando il fragore delle mine, il rumore dei colpi del piccone e dello scalpello viene sospeso, quando le gallerie si riempiono di silenzio e si abbandonano al buio, essa appare come una maledizione divina.

Otto ore al giorno di duro lavoro, in questo ambiente dannoso, buio e mortificante, fra il rumore senza tregua dei macchinari, il frastuono delle acque, otto ore di sudore mischiato a polvere che ti si appiccicava, dove il caldo del corpo era sottoposto a improvvise correnti gelide che ti raggelavano il sangue, ti facevano scricchiolare le ossa, ti oscuravano la mente, otto ore nel pericolo costante che una sciagura potesse capitarti e prendere la tua vita. Nemmeno la pausa per il pranzo rappresentava una consolazione.

Questo, raccontavano, era "l'ultimo pane". Sì, proprio l'ultimo pane si diceva del lavoro in miniera. Sino a qui i racconti di chi la miniera l'ha vissuta. Ma se questo è ancora il lavoro nelle miniere del Cile come in altri parti del mondo: Cina, Russia, Sud Africa, Perù e in tanti altri paesi minerari, senza far torto a nessuno dei minatori cileni, chi più di tutti mi ha colpito è stato in particolare Mario Antonio Sepúlveda, il terzo fra i minatori tirato su, il quale come si è ritrovato fuori fra i "vivi" ha iniziato un suo personale, assennato show. Ha detto: "Ora non trattateci come artisti famosi: io voglio essere trattato come Mario Antonio Sepúlveda, lavoratore, minatore. I dirigenti devono fornire i mezzi per cambiare le condizioni di lavoro: così non si può andare avanti". E ha proseguito: "Noi minatori non siamo più i derelitti di cento o duecento anni fa, siamo persone istruite e competenti, con le quali ci si può sedere a chiacchierare in qualunque tavolo del Cile".

Chissà se al presidente cileno, alla proprietà, alle tante autorità presenti, questo show fuori programma è stato gradito. Sepúlveda ha messo al centro la sicurezza e la dignità dei lavoratori, ha spostato l'angolo visuale della discussione, ha posto un problema reale e va ringraziato per averne avuto l'immediato coraggio, per avere ricordato a tutti che quando il sipario calerà sulle loro gesta si ritroveranno con i problemi di sempre, e il primo da affrontare è la questione della sicurezza. La sicurezza come obiettivo mondiale; infatti non si è ancora spento l'eco delle gesta di "Los 33" che altre sciagure minerarie in Cina, Colombia e Ecuador hanno luttuosi epiloghi. La sicurezza del lavoro in miniera dovrà essere il primo pensiero in Cile come nelle altre parti del mondo; dovranno essere trovati parametri di sicurezza universali che abbiano innanzitutto il rispetto per la vita e la dignità di chi lavora come il primo dei diritti.

Se sapremo raccogliere la lezione di Sepúlveda di certo potremo dire di non essere stati del tutto distratti da un reality che cercava in particolare nel dolore la sua audience;ma potremo confidare nell'inizio di un lavoro che permetta per sempre di evitare situazioni come quella che si è verificata nella miniera di San José nel deserto cileno dell'Atacama.

* In qualità di segretario generale della Filcea Cgil di Grosseto l'autore ha diretto a lungo, dal 1989 al 2005, i minatori delle Colline Metallifere. Ha all'attivo numerose pubblicazioni sulla storia del lavoro in miniera.