La piattaforma unitaria sulla previdenza promossa da Cgil, Cisl e Uil contiene una serie di considerazioni condivisibili sulle criticità dell’attuale disegno normativo italiano e sulle linee guida che dovrebbero ispirare l’azione del governo. Si sottolinea, infatti, l’urgenza di interventi che, da una parte, correggano i difetti della riforma del 2011 e tutelino i lavoratori anziani che possano ritrovarsi senza lavoro, distanti dall’età pensionabile e senza accesso ad adeguati ammortizzatori sociali o efficaci politiche di ricollocamento e, dall’altra, sanino quello che in prospettiva appare il principale limite del sistema previdenziale italiano, ovvero la mancanza di misure che contrastino i rischi di inadeguatezza delle prestazioni per i lavoratori appartenenti allo schema contributivo che dovessero avere carriere frammentate, poco tutelate e poco retribuite.

I forti e repentini aumenti dell’età pensionabile introdotti dalla riforma Fornero hanno agito al pari di “tagli lineari”: non prevedendo nessuna (o molto limitate) forma di flessibilità nelle possibilità di pensionamento, non si è tenuta in alcuna considerazione l’ampia eterogeneità di situazioni fra i lavoratori anziani. Si è pertanto ritenuto che la limitata partecipazione attiva degli anziani in Italia fosse in passato dipesa unicamente dai requisiti pensionistici per anzianità e non anche (se non soprattutto) da elementi strutturali in grado di condizionare congiuntamente domanda e offerta di lavoro. In realtà, pensare che l’età di ritiro dipenda solo dalle preferenze dei lavoratori anziani, anziché dall’influenza delle caratteristiche della domanda e dell’offerta di lavoro, appare particolarmente miope.

Al di là di quanto stabilito dai vincoli normativi, la possibilità di proseguire l’attività lavorativa sembra, per esempio, appannaggio principalmente dei lavoratori più qualificati, che hanno maggiore facilità di continuare a incontrare la domanda di lavoro anche da anziani e riescono a svolgere mansioni meno gravose, meglio retribuite, e più gratificanti. A conferma di ciò, da ben prima della riforma, in Italia i tassi di occupazione degli anziani laureati erano di gran lunga più alti di quelli dei lavoratori con minore istruzione (che rappresentano, però, ancora la maggioranza dei lavoratori maturi) e, soprattutto, erano superiori al dato medio europeo.

Oltre che ai requisiti normativi, la propensione/possibilità di trascorrere un invecchiamento attivo è quindi legata anche ad altre determinanti della domanda e dell’offerta di lavoro, a cui solitamente non si pone sufficiente attenzione. I lavoratori anziani non possono essere in alcun modo considerati una categoria omogenea; anzi, essi appaiono profondamente eterogenei per caratteristiche, opportunità e necessità. Di conseguenza, policy che, come la riforma del 2011, non considerino in modo mirato le caratteristiche dei lavoratori e del sistema produttivo necessarie per favorire un invecchiamento attivo, espongono molti lavoratori ad attività particolarmente usuranti o a forti rischi di disoccupazione e vincolano le imprese all’utilizzo di forza lavoro più costosa e talvolta meno produttiva.

La principale domanda da porsi è, allora, quella relativa all’effettiva possibilità di garantire a tutti i lavoratori – in particolare ai meno istruiti e a quelli con precarie condizioni di salute – di rimanere occupabili, in prospettiva, fino ai 70 anni. Diversamente da quanto finora si è osservato nel dibattito italiano, bisogna riflettere attentamente sulle caratteristiche della domanda e dell’offerta di lavoro degli anziani, al fine di individuare specifiche misure che possano facilitare l’incontro fra le esigenze di imprese e lavoratori. In caso contrario, come sembra stia avvenendo, l’aumento cogente dell’età di ritiro potrebbe comportare, oltre ai suddetti effetti negativi su imprese e anziani, ripercussioni negative anche sull’occupabilità dei giovani, costretti a minori possibilità di accesso al lavoro a causa del ridotto flusso di uscite.

L’aumento dell’età di pensionamento andrebbe quindi associato a misure di active ageing che accrescano l’occupabilità dei più anziani e rendano per loro meno gravosa la prosecuzione dell’attività (anche attraverso la possibilità di combinare un lavoro part time con una quota di pensione) e migliorino le tutele di ammortizzatori sociali e welfare, anche tramite forme di flessibilità dell’età di uscita (mediante correttivi attuariali o tramite definizioni dello stato di salute individuale o dei lavori usuranti che non penalizzino il ritiro anticipato).

Allo stesso tempo, l’aumento dell’età di pensionamento andrebbe associato a profonde modifiche del sistema produttivo, in modo che questo possa offrire opportunità occupazionali adeguate a una forza lavoro in invecchiamento, senza penalizzare ulteriormente l’entrata in attività dei più giovani. È altrimenti forte il rischio che interventi sul solo versante previdenziale contribuiscano ad alleviare le urgenze di finanza pubblica, ma comportino ricadute sociali e macroeconomiche negative. In aggiunta, come richiamato, bisognerebbe immediatamente sanare eventuali rischi di inadeguatezza delle prestazioni erogabili dal sistema contributivo, soprattutto nel contesto attuale di bassa crescita e con un mercato del lavoro incapace di garantire a tutti salari elevati e carriere continue.

Prospettive poco vantaggiose caratterizzano, infatti, chi dovesse trascorrere parte della carriera da atipico e/o con bassi salari e frequenti interruzioni dell’attività (anche a causa della limitata copertura degli ammortizzatori sociali). Anche individui a lungo attivi potrebbero, dunque, ritrovarsi da anziani a ricevere prestazioni di importo limitato. Il sistema contributivo, con la sua logica attuariale e le sue tecnicalità, rappresenta una buona cornice per definire le regole di fondo del sistema previdenziale. Ma la sua applicazione non implica che, in modo trasparente, non ci si possa distanziare dalle sue regole rigide per introdurre forme di solidarietà e far fronte al rischio che le prestazioni siano particolarmente insufficienti per alcune tipologie di lavoratori. Dal punto di vista normativo, il contributivo è sovente ritenuto un sistema equo, in quanto attuarialmente neutrale rispetto alle scelte e ai comportamenti individuali (ricevi di pensione esattamente il frutto di quanto hai risparmiato in contributi).

Tuttavia, chi ritiene che la previdenza debba basarsi unicamente su un rigido meccanismo di contro-prestazione accetta implicitamente come “giusta” e immodificabile qualsiasi situazione critica o diseguaglianza che si crea nel mercato del lavoro. Le caratteristiche del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da molteplici, sfaccettate e immotivate forme di diseguaglianza salariale e contrattuale fra i lavoratori inducono, invece, a ritenere necessario un allentamento delle rigide logiche attuariali e a pensare all’introduzione di strumenti che, senza stravolgere le logiche contributive (i cui pregi non vanno affatto trascurati), tutelino chi, maggiormente esposto ai rischi di instabilità della relazione contrattuale e livelli retributivi particolarmente limitati, rischi di ritrovarsi da anziano in condizioni di forte disagio economico, pur essendo stato a lungo sul mercato del lavoro. Come evitarlo? Si potrebbe pensare di garantire a ogni pensionato una prestazione di importo proporzionale agli anni di contribuzione (effettiva e figurativa) e che sia funzione anche dell’età di ritiro. Ogni qualvolta, per una data combinazione di età e anzianità, la pensione contributiva fosse inferiore alla prestazione garantita, al pensionato verrebbe erogata come integrazione la differenza fra le due grandezze in questione e il finanziamento dell’integrazione sarebbe posto a carico della fiscalità generale. Una simile misura tutelerebbe al momento del ritiro chi dovesse registrare una carriera lunga, ma fragile. Al contempo, ipotizzando che la prestazione garantita cresca con il prolungamento della carriera individuale, si minimizzerebbero i disincentivi alla prosecuzione dell’attività da parte dei lavoratori. Lo stesso impatto sul bilancio pubblico sarebbe contenuto, dato che buona parte della maggior spesa – che, si noti, non emergerebbe prima di almeno 20 anni – verrebbe finanziata dai minori esborsi per prestazioni assistenziali, che verrebbero altrimenti erogate ai pensionati da lavoro poveri.

* Dipartimento Economia e Diritto La Sapienza Università di Roma