La Sezione lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha pronunciato la sentenza n. 15058 del 22/06/2010, con la quale ha affermato un principio di diritto applicabile in materia di collocamento obbligatorio dei lavoratori disabili.

Nella fattispecie, dinanzi alla mancata assunzione obbligatoria di un lavoratore disabile da parte di una società privata, il lavoratore proponeva ricorso al Tribunale di Roma chiedendo il risarcimento dei danni.

I giudici, in primo grado, accoglievano la domanda e condannavano la società al pagamento delle retribuzioni non erogate.

Il caso giungeva alla Corte di Cassazione, che accoglieva il gravame della società, annullava la sentenza della Corte d’Appello, confermativa del giudizio di primo grado e rinviava alla medesima Corte, in diversa composizione, per la decisione di merito.

La Cassazione ha deciso il caso sulla base delle seguenti motivazioni:

Il thema decidendum della presente controversia imponeva di considerare la portata da assegnare al termine "qualifica" di cui alla L. n. 68 del 1999, art. 9. Ed infatti le specifiche finalità sottese al disposto di quest'ultima norma e la lettera della stessa L. n. 68, art. 2 - nella parte in cui fa riferimento a strumenti che permettano di valutare adeguatamente le persone con disabilità "nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto", nonchè ad "analisi di posti di lavoro.... e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi di lavoro" - portano ad escludere una opzione ermeneutica volta ad assegnare al termine "qualifica", di cui al summenzionato art. 9, comma 2, una portata astratta ed indefinita, rendendo di contro doverosa una interpretazione che - in conformità delle linee guida della vigente normativa sul lavoro dei disabili - assegni al suddetto termine un significato più concreto, da intendersi cioè come specificazione delle capacità tecnico-professionali - di cui deve essere provvisto l'assumendo - che siano richieste per la sua collocazione lavorativa.

L’art. 10 della L. 68/99 nello statuire, al comma 1, che ai lavoratori assunti a norma della presente legge si applica "il trattamento economico e normativo previsto dalle leggi e dai contratti collettivi", e nel rimarcare ancora, al comma 2, che "il datore di lavoro non può chiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue minorazioni" - conforta l'assunto secondo cui in un sistema di c.d. avviamento mirato, che sia funzionalizzato a trovare un giusto equilibrio tra gli interessi del lavoratore disabile e del datore di lavoro, deve assegnarsi il dovuto rilievo alle specifiche, variegate e speculari caratteristiche dell'area produttiva in cui si opera, ed in relazione alle quali va parametrato il trattamento, oltre che economico, anche normativo, del lavoratore disabile.

Pertanto, l'obbligo dell'impresa di procedere all'assunzione viene meno allorchè l'avviamento sia avvenuto per una qualifica diversa, se pure simile, a quella specificata nella sua richiesta, non potendosi addossare all'impresa richiedente la responsabilità di sopperire a tale formale difformità mediante indagini di fatto sulle pregresse esperienze del lavoratore e su quanto da lui riferito in sede di colloquio "preassuntivo" (v. Cass. 6017/09).

Ne consegue che il datore di lavoro può legittimamente rifiutare l'assunzione non soltanto di un lavoratore con qualifica che risulti, in base all'atto di avviamento, diversa, ma anche di un lavoratore con qualifica "simile" a quella richiesta, in mancanza di un suo previo addestramento o tirocinio da svolgere secondo le modalità previste dalla stessa L. n. 68 del 1999, art. 12".

A parere degli ermellini la sentenza impugnata non si sarebbe attenuta a tale principio e, pertanto, è stata cassata con nuovo rinvio alla Corte d’Appello per la decisione nel merito.



di Andrea Tropea