Si dice che con il piano nazionale Industria 4.0 il nostro paese sia finalmente tornato a fare politica industriale. Ma davvero con questo programma l’Italia può riuscire a cogliere la sfida dell’innovazione? Lo abbiamo chiesto a Leonello Tronti, economista del lavoro ed esperto di economia della conoscenza: “È un passo in avanti significativo – spiega –, soprattutto se lo confrontiamo con la situazione precedente. Ma non basta. Dai tempi dal pacchetto Treu che ormai ha vent'anni si è fatta una politica industriale 'implicita' su due pilastri. Il primo era costituito da benefici fiscali e altri vantaggi economici per mantenere in vita anche le piccole e piccolissime imprese non competitive. Il secondo pilastro era quello del lavoro: continue riforme hanno favorito chi faceva competizione sui costi, essenzialmente nel campo dei servizi alla persona, anche con un certo accanimento direi.

E sul fronte della politica economica cosa è successo?

Dalla fine degli anni ‘80 si è scommesso sulla capacità del mercato di produrre crescita, sviluppo, occupazione. Però questa scommessa è andata persa. Oggi, il fatto che il paese si doti di un piano che ha delle risorse nuove, basato sulla collaborazione con le università e con i centri di ricerca e sul coinvolgimento delle parti sociali almeno in termini di monitoraggio, è il segnale di un’Italia che comincia a pensare al futuro. Che però, se non lo si accompagna, è un ospite sgradito, non si comporta bene una volta entrato in casa. Bisogna capirlo e prevederne le necessità: solo in questo modo può diventare un amico. Ma anche se riuscisse ad ammodernare molto rapidamente una parte consistente delle industrie italiane, il piano Industria 4.0 non sarebbe comunque sufficiente.

Che cosa si dovrebbe fare secondo lei?

Servono tre gambe. Accanto all’innovazione e alla produttività, serve la domanda e bisogna dare la possibilità alle persone che perdono il lavoro di trovarne uno nuovo.I due principali problemi sono quindi sul fronte della domanda e sul fronte del lavoro. Occorre porsi il problema di come possano riqualificarsi le persone che svolgono compiti automatizzati, ragionando in termini di formazione e di politiche attive. Ma, soprattutto, è necessario creare una domanda 4.0: se aumenta la produttività, chi compra i beni prodotti?

Andiamo con ordine. Quale sarà l’effetto sull’occupazione? La digitalizzazione porterà alla distruzione o alla creazione di lavoro?

C’è in effetti un problema di relocation della forza lavoro: in questo senso la società deve pagare un sacrificio nei confronti delle trasformazioni. Ma dire che ci sarà disoccupazione di massa è sbagliato. Io sono contrario alle visioni pessimistiche. Comunque dipenderà dalla domanda. Se cresce almeno quanto la produttività, l’occupazione può persino aumentare. Su questo non sappiamo nulla perché non possiamo prevedere con certezza l'evoluzione dei mercati internazionali e interni.

Il punto centrale è quindi la “domanda 4.0”. Come stimolarla? Un aumento della produttività può riversarsi nella redistribuzione dell’orario e nello stesso tempo nell’aumento delle retribuzioni?

Sì, la prima condizione è che ci sia domanda. Solo così si generano risorse che poi si possono spendere in modi diversi: a favore del cliente, riducendo i prezzi; a favore degli azionisti, aumentando i profitti; a favore dei dipendenti, con aumenti salariali o riduzioni dell’orario. E la crescita delle retribuzioni potrebbe a propria volta stimolare la domanda interna.