Qualche anno fa, accompagnando una legge in materia finanziaria, il governo Berlusconi scrisse sulla Gazzetta Ufficiale un vero e proprio documento filosofico sul fisco. Il testo si richiamava a Locke per sostenere con molta enfasi che il compito dello Stato era solo quello di proteggere la sacra proprietà e di non usare quindi la leva fiscale per attaccare la sicurezza dei possessi e del denaro.

Non tutto il pensiero politico moderno segue però le orme di Locke e condivide il suo individualismo possessivo che innalzava la proprietà a diritto etico della persona e censurava con fermezza la tassazione che osava invadere l’inviolabile recinto dei beni privati. Una delle riflessioni filosofiche più interessante sul nesso moderno tra politica e fisco si rintracciava in Hegel. Egli contrapponeva lo Stato razionale di impronta europea, che ai suoi occhi non si configurava come braccio secolare della ricchezza, e lo Stato empirico all’americana che invece rendeva il pubblico potere un che di sussidiario rispetto alle convenienze degli attori economici volti all’accumulazione. Solo nelle lontane terre dei coloni americani si rinveniva uno Stato appena embrionale che per sbrigare i suoi esigui compiti non poggiava su un sistema organizzato di imposte.

Solo uno Stato strutturato in un senso moderno avrebbe dovuto provvedere a dotarsi di un valido meccanismo fiscale. Quello delle ampie distese americane era “uno Stato tuttora in divenire” che non aveva quindi alcuna necessità di attrezzare una macchina amministrativa e una efficiente leva fiscale. Uno Stato autentico per Hegel sorgeva solo quando si riscontrava una società civile moderna e articolata dove si accennava “già una differenza di classi, quando ricchezza e povertà divengono molto grandi, e ne nasce uno stato di cose per cui un gran numero di persone non può più soddisfare i suoi bisogni nel modo che gli era consueto”. A giudizio di Hegel senza “un sistema compatto di società civile” non poteva prendere quota “uno Stato organizzato” capace di adempiere funzioni pubbliche essenziali.

Soltanto in un non-Stato come quello americano era possibile trascurare il sistema della tassazione come fonte di una macchina pubblica
. In uno Stato ben organizzato il fisco era invece centrale perché evocava la potenza regolativa del pubblico e il carattere nient'affatto assoluto o intangibile della proprietà o ricchezza economica. Con il prelievo fiscale effettuato secondo parametri razionali ed equi lo Stato poteva svolgere i suoi elevati compiti di regolazione e di intervento. “Già le tasse, che lo Stato non può fare a meno di esigere, sono un togliere il diritto di proprietà”.

Hegel reagiva dunque con asprezza alla tendenza a esaltare il contratto tra singoli a principio ordinatore generale della società civile
e respingeva che “quell'infinitezza formale che costituiva il principio del diritto civile, si era conquistata una speciale supremazia sul diritto statuale”. La forte rivendicazione di un primato del politico (come ambito del generale cui dipendono anche le tipologie dei contratti e gli schemi negoziali) non sospingeva Hegel verso i lidi dello statalismo autoritario (alla Fichte che, con il controllo asfissiante della vita, per Hegel finiva per negare le libertà civili), ma lo induceva a rivestire anche la sfera della privata autonomia negoziale con diritti pubblici aperti alle istanze della personalità concreta.

Assicurata la pertinenza individuale delle scelte morali e il carattere soggettivo dell’attitudine economico-negoziale, restava da gestire il divario reale che i patrimoni molto differenziati determinavano tra i soggetti astratti definiti dalla forma giuridica. Il diritto, come astratta costruzione di una forma generale insensibile alle differenze sociali, veniva posto di fronte alla “diseguaglianza della forza della vita” e quindi incrociava “il rapporto di signoria e servitù” che vedeva soggetti con pari diritti vantare una potenza sociale diversa.

Gli individui che stavano di fronte nel rapporto sociale concreto erano ormai equiparati nella forma, ma apparivano assai differenziati nella vita per il grado di potenza sociale
. Hegel avvertiva che l'eguaglianza esteriore raggiunta con la generalizzazione tipizzante della forma astratta non cancellava la disuguaglianza reale della vita. Nel rapporto sociale l'individuo non costruiva un solido legame, incontrava piuttosto “una forza straniera, su cui egli non può nulla, quella da cui dipende”. Il soggetto è così schiacciato da “un perpetuo ondeggiare” delle situazioni oggettive di vita che rendeva inafferrabile il sistema del bisogno che gli offriva il sostentamento a condizioni competitive.

L'equilibrio sociale era dunque per Hegel un prodotto, una costruzione attraverso il meccanismo pubblico, non era solo un dato spontaneo affidato alle transazioni del mercato. Il governo doveva perciò anche “opporsi alla natura”, controllare gli equilibri mutevoli dell’economia e fronteggiare le empiriche accidentalità (concorrenza, prezzi). Vigilare con attenzione sui “tentennamenti empirici”, che talvolta portavano “alla distruzione dell'equilibrio”, non comportava per Hegel un cieco attacco al regime proprietario ma un suo controllo attuato secondo parametri pubblici perché il disagio diffuso nella vita reale rendeva vulnerabile la società nel suo complesso.

Lo strumento fiscale che stanava le rendite e gravava i profitti era la leva principale offerta alla mano pubblica per limare le grandi differenze di fortuna e così affermare la centralità di una funzione redistributiva gestita dallo Stato. Hegel, esaltando la politica fiscale, respingeva ogni concezione minima dello Stato dinanzi al preteso ruolo esaustivo dell'operatore economico provvisto di diritti patrimoniali primordiali. La tassazione organizzata dalle istituzioni pubbliche in Hegel non era una funzione residuale dinanzi alle dispiegate forze di mercato. Essa piuttosto appariva come uno strumento chiave in mano al governo per la precisazione di politiche pubbliche solidali orientate all’equilibrio sociale.

Il problema del tributo, quale risorsa per affermare un interesse pubblico saliente, risiedeva nell'incerta conoscenza del reddito
dal momento che solo la terra aveva un valore stabile, mentre in altre fonti di ricchezza il fisco si imbatteva “contro l'infinito vacillare del valore delle cose”. Mentre i “beni immobili vengono smisuratamente gravati d'imposte” per reggere il bilancio dello Stato, i beni mobili sono un che di “incalcolabile”. Malgrado questa base difficilmente eliminabile di incertezza riguardo ai capitali, il sistema fiscale non poteva essere scalfito nelle sue esigenze funzionali se alla politica si affidava un compito costruttivo e non quello di ergersi a neutrale guardiano degli equilibri precari del mercato.

La sfida, secondo Hegel, era quella di mettere al riparo lo Stato dalle fluttuazioni della produzione per non diminuire il gettito su cui costruire politiche sociali il cui presupposto era che il libero operare delle forze economiche fosse strutturalmente inadeguato a svolgere compiti di giustizia sociale. “La produzione dovrebbe essere gravata in progressione crescente”, osserva Hegel che in mente aveva politiche fiscali redistributive e allocative. A suo avviso, proprio “nelle imposte il governo ha un mezzo per influenzare questa limitazione e questo sviluppo di singole parti”.

Revocando l'idea di un originario e intangibile diritto di proprietà, Hegel escogitava una funzione attiva dello Stato impositore che andava oltre la fornitura dei beni pubblici classici (ordine, polizia, difesa). Lo Stato, per questo compito di costruttore di benessere, trovava nel fisco una fonte per distribuire beni primari confidando nelle risorse provenienti dalla tassazione (su produzione, redditi, abilità, distribuzione, merce). Il mito dell’intangibilità della proprietà veniva infranto per realizzare obiettivi non rinviabili di sicurezza sociale e di coesione economico-civile. La capacità contributiva andava fissata dalle norme e a giudizio di Hegel in un sistema efficace di tassazione “la ricchezza dello Stato dovrebbe fondarsi il meno possibile sui beni demaniali, bensì sulle imposte. Ognuno sente le imposte e vuole sapere che sono ben impiegate”. La tassazione non era quindi un mero fardello dal quale guardarsi con timore e furbizia, ma un prelievo indispensabile per la vita associata e la macchina amministrativa.

L'industria moderna, immersa in una concorrenza globale che mostrava “la completa casualità dell'esserci singolo”, produceva per Hegel scissione e quindi “ribellione e odio” non per capricci, disfunzioni accidentali, ma per la intrinseca logica orientata al contenimento dei costi di produzione delle merci e al continuo risparmio di tempo per la realizzazione dei beni. Non solo i diritti proprietari avevano un costo per il pubblico, ma era interesse dello stesso sviluppo economico l'apertura di una sfera pubblica che promuovesse obiettivi sociali e un minimo di giustizia distributiva. Per Hegel lo strumento direttivo della politica era legato alle tasse, al sistema delle imposte necessarie per correggere le ricadute sociali di industrie che innovavano ma “col sacrificio di questa generazione e l'accrescimento della povertà”. L'interferenza dello Stato, alla lunga, si rivelava conveniente anche per coloro che esaltavano l'autonomia dei diritti proprietari e l’arbitrio degli attori economici.

Stato e mercato non si ponevano tra loro in una rigida alternativa. Per Hegel “ci vuole l'una e l'altra cosa insieme: il potere dello Stato nell'esserci e il lasciar esistere, lasciar fare”. Concorrenza e politiche macroeconomiche non si escludevano tra loro. Era un mercato vestito con precise determinazioni giuridiche e istituzionali quello che nelle sue pagine si veniva prospettando con nitidezza. La crescita affidata all’intraprendenza dei privati conviveva con la mano visibile dello Stato che governava il sistema sociale complessivo con risorse estratte tramite il fisco e indirizzate verso essenziali beni pubblici. Il fisco, non la caritas, per Hegel consentiva di mantenere una apertura verso la “socialitas” in una economia della concorrenza e della diseguaglianza. Chi è contro il fisco è contro l’eguaglianza come bene pubblico.