Con la crisi greca è divenuta ancora più trasparente la collocazione sociale del Pd. Nello scontro in atto nell’Europa del Sud, Renzi si è seduto a fianco del rigore e dell’austerità come castigo etico contro la devianza del paese ellenico. La sua scommessa è quella di sopravvivere con le stesse ricette dei governi tecnici. E in più, cerca di conquistare terreno elettorale con un po’ di antipolitica e una campagna permanente di intrattenimento.

La sua speranza è riposta in uno scambio. Per evitare le misure drastiche di contenimento della spesa (quelle peraltro previste dal fiscal compact o dalle clausole di salvaguardia), Renzi getta sul tavolo delle cancellerie europee un inasprimento delle riforme strutturali a elevato costo politico. Le riforme elettorali e istituzionali, la trasfigurazione del mercato del lavoro e l’alterazione della scuola pubblica, secondo il governo sono rotture così profonde da giustificare una chiusura d’occhio dei sorveglianti europei sui conti pubblici fuori controllo.

L’offerta è esplicita. In cambio di misure ancor più visibilmente impopolari (il peso delle nuove tassazioni viene peraltro affibbiato ai poteri locali), il governo regala decisioni simboliche contro il lavoro e la democrazia rappresentativa. E calcola che ciò sia sufficiente per placare le ire dei poteri finanziari. Più che sulle tasche, il governo vuole incidere sui diritti, sulla cultura politica, sulla dignità della persona che lavora.

È evidente che un lavoro senza più protezione costituzionale, giuridica, sindacale, politica perderà ulteriore peso contrattuale e quindi, anche sul versante economico, ci sarà una caduta secca. Ma il governo auspica che questo effetto di impoverimento del lavoro sia camuffato dal magismo della comunicazione messo in scena per guadagnare tempo e distrarre dalle condizioni di vita. Con il sostegno dell’impresa, premiata con miliardi di sgravi e detrazioni, e con misure bluff come gli 80 euro (pagati dal pubblico con riduzione di servizi essenziali e non attraverso conquiste contrattuali), l’esecutivo evita ogni politica industriale.

Il problema è che le misure governative non sprigionano effetto alcuno per la ripresa, la cui assenza è imputabile a nodi strutturali dell’economia. Su di essi è mancato qualsiasi intervento legislativo efficace. Gli anni della crisi sono stati anni persi, con sacrifici vani e con l’utilizzo di miliardi preziosi (in tempi di drammatica scarsità di risorse) per accontentare l’impresa sull’Irap e non per sostenere una coerente politica pubblica per l’occupazione. La frattura che si è aperta su punti nevralgici (lavoro, scuola, Costituzione) non è più rimarginabile. È troppo profonda. Senza rimedio.