Alternare la scuola con il lavoro, o meglio mettere in pratica quello che si studia in classe durante uno stage in azienda, è la norma all’Istituto Righi di Chioggia, in provincia di Venezia. “Una buona pratica che porta i nostri ragazzi ad essere più motivati, competenti e, perché no, li aiuta a trovare più facilmente un lavoro terminati gli studi”, ci spiega Maurizio Scarpa, docente fin dal 1992 nell’attuale Istituto tecnico per la costruzione, l’ambiente e il territorio (ovvero, prima dell’ultima riforma scolastica, un tecnico per geometri e periti edili) e, fin dal 2004, coordinatore dei progetti di alternanza lavoro.

“All’inizio nessuno di noi docenti sapeva come occuparsi di questo importante aspetto dell’istruzione, devo ammettere che abbiamo improvvisato – racconta il professore, che insegna laboratorio tecnologico, progettazione e topografia – il nostro obiettivo era trasferire alcune pratiche interne all’istituto in aziende esterne, facendo accompagnare i ragazzi da un tutor. Devo dire che all’inizio è stato faticoso, ma poi è andato tutto molto bene, con il tempo abbiamo formato una rete capillare con le aziende di zona”. Il primo stage dei giovani periti edili di Chioggia, nel 2004, è durato una settimana.

“Per otto ore al giorno hanno vissuto il lavoro in un vero studio professionale – continua il professore – dove una persona li ha aiutati a capire come funzionava e cosa dovevano fare. Come scuola pagavamo loro le spese di trasporto e l’assicurazione e li abbiamo monitorati durante tutto il periodo, rendendoci conto che per loro si trattava di un’esperienza molto positiva”. Così l’anno dopo, il 2005-2006, anche i docenti hanno seguito dei corsi di formazione e l’alternanza scuola lavoro è entrata pienamente a regime. “All’inizio solo cinque classi hanno preso parte al progetto, mentre oggi siamo arrivati al punto che tutti i ragazzi del quarto anno rimangono quattro settimane circa in azienda. Quest’anno per esempio resteranno fino a Pasqua e la normale attività scolastica verrà sospesa – prosegue Scarpa –. Di solito i nostri alunni vanno da soli o in due negli studi più grossi della zona. Rispetto all’inizio abbiamo cambiato alcune cose e consolidato delle altre: per esempio abbiamo scelto di mandare le quarte perché non hanno impegni di maturità, mentre prima mandavamo le terze per cui l’esperienza in azienda era propedeutica allo studio della sicurezza sui cantieri e alle norme sindacali. Purtroppo non siamo riusciti a mandare anche gli alunni dell’indirizzo meccanico, perché risultava molto difficile seguirli sui cantieri”.

Il lavoro dei docenti che si occupano dell’alternanza scuola-lavoro è articolato e gratificante: “All’inizio si pianificano con il tutor le attività da svolgere, inerenti ovviamente al programma di studi svolto durante l’anno scolastico; per esempio c’è chi farà gli scavi, chi i rilevamenti topografici oppure il computo metrico di un fabbricato, ovvero quanto viene a costare una casa dal punto di vista industriale dalla maniglia alla copertura. A scuola ci mettiamo due o tre mesi a spiegarlo, ma i nostri moduli sono molto stretti per esigenze di tempo. Invece quando tornano dallo stage, dopo averlo fatto realmente per otto ore al giorno, lo sanno fare benissimo – dice il professore – e la cosa bella è che molti di questi tutor spesso sono nostri ex alunni, e quando i ragazzi capiscono questo pensano immediatamente che anche loro possono farcela e reagiscono benissimo. Si rimotivano”. Niente nasce dal caso. Infatti: “La selezione non è stata semplice – ammette il docente –. Spesso nelle aziende pubbliche, per esempio, il dipendente seguiva poco i nostri ragazzi. Adesso abbiamo selezionato gli studi e formiamo i tutor interni per fargli capire quanto siano importanti e come devono comportarsi. La cosa bella è che succede spesso che i ragazzi vadano a lavorare in queste aziende anche durante le vacanze perché entrano in confidenza con il tutor esterno. Per il ragazzo è qualcosa di formativo ed entusiasmante, mentre lo studio ci guadagna perché dopo la maturità, se vuole, può inserire al suo interno (per svolgere il praticantato obbligatorio ai fini dell’abilitazione professionale, ndr ) una persona che ha contribuito a formare”.

Ogni studente tiene un diario di bordo durante il periodo di alternanza e ne emerge sempre qualcosa di nuovo: “Spesso, soprattutto nell’ultimo periodo di crisi – conclude il coordinatore del progetto – i giovani hanno poca stima del percorso intrapreso, pensano che non troveranno lavoro anche con il diploma e che in classe facciamo solo teoria e poca pratica realmente utile ai fini lavorativi. Quando tornano scoprono che non è così difficile, vedono ex alunni che lavorano e spesso ci dicono: quello che insegnate allora è vero! Purtroppo negli ultimi tempi abbiamo fondi sempre più ridotti, anche se noi facciamo sempre lo stesso lavoro, e questo rischia di pregiudicare le attività”. La stessa carenza lamenta anche Antonio Natalicchio, dirigente scolastico da tre anni presso l’Istituto Professionale di Stato per i Servizi di enogastronomia ed ospitalità alberghiera di Molfetta, in provincia di Bari. “Abbiamo istituzionalizzato il periodo di alternanza scuola lavoro solo grazie ai contributi, per altro volontari, delle famiglie. I nostri ragazzi fanno tre settimane di stage presso le aziende, si tratta di una rete non solo locale e regionale ma che si estende anche all’Umbria, alla Toscana, al Trentino, alle Marche e alla Romagna”. Per ventuno giorni gli alunni hanno la possibilità di fare affiancamento nei diversi settori, dalla sala all’accoglienza, alla cucina alberghiera ecc., un laboratorio sul campo molto importante che, però, se dovesse contare solo sui soldi pubblici, non potrebbe mai coinvolgere tutti gli alunni.

“L’anno scorso, infatti, il finanziamento statale è arrivato solo ad aprile – continua il professore –, mentre l’anno prima era saltato e senza l’aiuto delle famiglie non avremmo potuto mandare i nostri ragazzi fuori. Inoltre, a causa dei pochi fondi sono stato costretto a cancellare il rimborso per le aziende, ma riusciamo comunque a mantenere rapporti positivi con il territorio e anche fuori. Il fatto è che preoccuparci sempre dei soldi snatura la nostro missione a volte e ci tiene molto impegnati”. I ragazzi dell’ex alberghiero, però, sono ormai diventati bravissimi anche nel fund rasing: ogni anno partecipano a lla sagra del cardoncello, un fungo tipico di quelle parti, e in cambio del lavoro come cuochi il comitato della sagra fornisce alla scuola il materiale didattico per le cucine. Oppure preparano il dolce di Natale che poi i docenti acquistano, o ancora la cena di carnevale per le famiglie o per qualche associazione di zona che poi versa un contributo. “Prima di mandare i ragazzi – continua il preside – concordiamo un programma di attività con la struttura, organizziamo l’accoglienza e ci preoccupiamo del monitoraggio che sarà costante. La cosa bella è che i ragazzi dopo questa esperienza dal vivo tornano molto motivati, i nostri laboratori sono vecchi, mentre lì hanno macchinari nuovi a disposizione, strutture vere in cui cimentarsi. Inoltre spesso tornano a lavorare lì almeno per una stagione. Il problema è che ci sentiamo come in un circo: lavoriamo in equilibrio, ma senza una rete di protezione in caso di caduta. Se qualcosa andasse storto, infatti, avremmo problemi a rialzarci. Per questo ci servirebbero dei fondi sicuri e costanti”. Proprio questa carenza strutturale, infatti, non ha permesso all’Istituto artistico Benvenuto Cellini di Valenza, in provincia di Alessandria, di continuare i progetti di alternanza scuola lavoro.

“Il problema, oltre ai fondi, è anche la formazione del personale docente e la condivisione di modelli di riferimento – spiega Alessandro Montaldi, docente nel laboratorio di design dell’Istituto piemontese –; ogni scuola è lasciata in solitudine e i licei, purtroppo, pagano lo scotto di avere poca sensibilità ed esperienza nel settore degli stage. Quella dell’alternanza scuola-lavoro viene interpretata come una pratica residuale, per chi non è interessato alla scuola. Questa è una lettura sbagliata e deleteria, purtroppo”. Lo dimostrano le parole di Jasmine, una delle studentesse del professor Montaldi, di appena 17 anni, molto brava in oreficeria: “Non mi è stato mai proposto una stage, ma lo troverei molto interessante. A scuola impari tanto, ma se non ti preparano al lavoro dopo rischi di avere più difficoltà. I miei genitori per esempio lavorano entrambi in un’azienda orafa e io vado a vedere ogni tanto come funziona e imparo, ma non posso stare sempre lì. Il problema – continua la ragazza – è che le aziende sono un po’ restie a prendere noi ragazzi in stage. Nella mia classe, poi, tra i miei compagni non c’è nemmeno tanto interesse alla cosa, non c’è tanta progettazione per il futuro, parliamo di andare all’estero il più delle volte, cosa che ci sembra la scelta migliore per lavorare. Qui da noi vengono degli studenti francesi a fare lo stage, sarebbe bello se noi potessi andare da loro”.

Valenza è un centro orafo di eccellenza in Italia e molte scuole straniere mandano i propri studenti per imparare l’antica arte dell’incisione: “Con la crisi tutto è cambiato – racconta il docente –, ma il vero problema sono i fondi e la costruzione di reti solide nel territorio. I nostri ragazzi sono molto sensibili e questo tipo di percorso è bloccato loro pregiudizialmente. Inoltre è difficile creare reti di imprese e dare continuità al rapporto con le aziende, che spesso sono piccole. Servirebbe del personale formato che si occupi solo di questo: serve un percorso condiviso per fare cultura attraverso il sapere fare”.