“Crisi, rinascita, ricostruzione. Giuseppe Di Vittorio e il Piano del lavoro (1949-50)” è il titolo del volume – a cura di Silvia Berti, introduzione di Fabrizio Barca, edito da Donzelli – presentato a Roma, il 9 ottobre, presso l’Archivio Centrale di Stato, alla presenza del presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Un’occasione – il volume raccoglie gli atti del convegno organizzato all’Università di Foggia nel gennaio 2010 dall’associazione Casa Di Vittorio – per ritornare sul significato storico del Piano e discutere – con gli interventi di Fabrizio Barca, Piero Craveri, Guglielmo Epifani, Roberto Napoletano, Umberto Ranieri – delle politiche necessarie a fronteggiare la crisi oggi in corso. Di un Piano del lavoro per gli anni duemila, in sostanza: impegno che com’è noto, riprendendo l’intuizione di Di Vittorio, vede di nuovo all’opera la Cgil.

Più di due milioni di disoccupati, salari miseri, squilibri drammatici, infrastrutture scarse e disastrate. Alle soglie degli anni 50, assolte le urgenze della ricostruzione postbellica, l’Italia è un paese povero e afflitto da gravi disuguaglianze. È in questo quadro, con la divisione sindacale ormai consumata, le sinistre relegate all’opposizione e il centrismo a garantire l’appartenenza dell’Italia al campo occidentale, che la Cgil di Di Vittorio avanza la proposta di un Piano del lavoro “per la rinascita dell’economia nazionale”. Lanciato nel congresso del 1949, discusso nella conferenza di Roma del febbraio 1950 – conferenza che vede la partecipazione di economisti del calibro di Alberto Breglia, Giorgio Fuà, Sergio Steve, oltre che di un giovane Paolo Sylos Labini –, il Piano consiste essenzialmente nell’idea di un vasto programma di opere pubbliche – campi d’intervento l’agricoltura, l’energia elettrica, l’edilizia – capace di ridare fiato al mercato interno e aprire così la strada alla piena occupazione. Alla realizzazione delle opere dovevano affiancarsi tre enti – per le bonifiche, l’irrigazione e la trasformazione fondiaria, la costruzione di nuove centrali elettriche, l’edilizia popolare, sanitaria e scolastica –, consentendo così allo Stato di intervenire in maniera efficace all’interno di campi d’attività considerati strategici.

Quanto alle risorse necessarie al finanziamento del Piano, la Cgil guardava al contributo che poteva venire dagli agrari beneficiari dei lavori e, attraverso un’imposizione straordinaria, dai redditi più elevati. I lavoratori, dal canto loro, di fronte alla prospettiva di un futuro meno disperante del presente, avrebbero fatto volentieri la loro parte di sacrifici.

Un progetto che si rifaceva alla lezione del keynesismo, si è ripetuto più volte, non privo di intuizioni che andavano oltre lo stesso impianto teorico di base. “È stato detto che al fondo vi era un’ispirazione keynesiana”, ricordava al riguardo Fernando Vianello in uno storico convegno sul Piano organizzato dalla facoltà di Economia dell’università di Modena nel 1975. “Va tuttavia osservato – proseguiva – (…) che il Piano del lavoro si prefiggeva obiettivi più ambiziosi del puro e semplice sostegno della domanda aggregata”. Giudizio condiviso da altri studiosi, e che ritroviamo oggi nell’introduzione di Fabrizio Barca a Crisi, rinascita, ricostruzione, il volume dedicato al Piano del lavoro, curato da Silvia Berti ed edito da Donzelli, là dove il ministro per la Coesione territoriale, circa gli obiettivi del Piano, parla di “proposte che, certo attente all’effetto keynesiano di domanda, sono tuttavia formulate in una logica moderna di offerta: offerta di servizi accessibili e di qualità”.

L'ORIGINALITA', I LIMITI. Un elemento indubbio di originalità reso debole, tuttavia, da una lettura per molti versi miope delle prospettive economiche del paese. Un tema ritornato spesso nella riflessione sul Piano e di cui, sempre nell’incontro di Modena, parlò fra gli altri Bruno Trentin. I limiti comunque presenti nella cornice neokeynesiana delle proposte della Conferenza di Roma, osservava il leader prima della Fiom poi della Cgil, si saldavano “con un’analisi dello sviluppo capitalistico italiano del dopoguerra sostanzialmente errata (...) un’analisi che diagnosticava una sostanziale stagnazione di lungo periodo dello sviluppo industriale e il manifestarsi di una sorta di diserzione del grande capitale rispetto all’esigenza di una ricostruzione dell’apparato produttivo. Con questo schema malthusiano essa si precludeva la comprensione della ristrutturazione in atto e della direzione monopolistica di questo processo”. “Ha pesato a lungo nella sinistra italiana – ribadiva Trentin – una concezione neomalthusiana del monopolio, che riduceva il processo di concentrazione monopolistica a pura e semplice mortificazione delle forze produttive”.

Rilievi critici che non fanno una piega – e del resto Trentin, chiamato giovanissimo da Vittorio Foa all’ufficio studi della Cgil, fu tra i protagonisti dello svecchiamento dell’impalcatura teorica che governava all’epoca, a sinistra, la lettura del capitalismo di casa nostra –. Rilievi che ritroviamo oggi – anche se in un ambito diverso di riflessione – nel contributo di Giuseppe Berta al volume edito da Donzelli. Nella sinistra e nelle organizzazioni di base del sindacato – osserva lo storico torinese – agiva la “convinzione profonda che l’industria italiana non fosse in procinto di conoscere una grande espansione, ma al contrario stesse per subire un decisivo e drastico ridimensionamento”. Una convinzione che era in qualche modo la traduzione letterale, il rispecchiamento analitico, della realtà con cui ci si confrontava in quegli anni: la chiusura, la dismissione di grandi impianti industriali – le “smobilitazioni”, come diceva la Cgil –, con i drammatici effetti che tutto questo andava producendo sull’occupazione, quindi sulla vita quotidiana delle persone. In realtà a chiudere, ricorda Berta, erano impianti che avevano fatto la loro fortuna grazie soprattutto allo sforzo bellico. “Essi avevano prodotto armamenti, aerei, mezzi militari che non solo in quel momento non servivano più, perché non c’era una domanda pubblica (…), ma che erano divenuti ormai obsoleti, perché l’alleanza con gli Stati Uniti d’America faceva sì che il materiale americano fosse estremamente più moderno e avanzato”. “Si pensava in sostanza che in quel lungo e tormentoso dopoguerra non ci fosse da parte dell’industria italiana la capacità di lanciare un proprio progetto espansivo (...). Ci fu un divorzio, diciamo così, tra la prospettiva di una dinamica di lungo periodo e la percezione di quello che stava accadendo in maniera molecolare giorno per giorno nelle fabbriche italiane, con uno stillicidio di licenziamenti, a volte anche con la chiusura di intere fabbriche”. Esisteva dunque “uno iato profondo tra l’intuizione del Piano del lavoro e la cultura politica prevalente con cui a sinistra si guardava alle prospettive del capitalismo italiano”; prospettive considerate asfittiche, prive di respiro, incapaci di assicurare al paese uno sviluppo adeguato.

NORD E SUD. Un giudizio cui faceva da contraltare la riluttanza a misurarsi con le concrete trasformazioni che si andavano realizzando in alcune grandi imprese, a partire dalla Fiat, e che portarono poi nel marzo ’55 al crollo clamoroso della Fiom (dal 63 al 37% in un anno) nelle elezioni della commissione interna della casa automobilistica torinese: una sconfitta, ammise Di Vittorio al direttivo Cgil dell’aprile successivo – lezione di autocritica sempre citata e sempre attuale –, che non era tutta da addebitarsi alle politiche repressive di parte padronale, pure in quegli anni pesantissime. Il retroterra culturale del Piano, la difficoltà a leggere in maniera adeguata le trasformazioni dell’industria, quindi a dare un respiro diverso alle lotte allora in corso, non era comunque il solo limite. Problemi non indifferenti, nel rapporto con il movimento reale, si riscontrarono anche nel Sud, a partire dalle campagne.

Ne parla lo storico Luigi Masella, sempre nel volume citato, rilevando appunto la compresenza in quegli anni di una intensa mobilitazione – il Piano dava risposta innanzitutto a un movimento che c’era, diceva Trentin – ma anche di una elevata frantumazione delle lotte: in altri termini di un distacco tra le singole agitazioni e la necessità di una più ampia e radicale riforma della società e dell’economia del Sud d’Italia; cosa che “voleva dire assumere nella sua realtà e complessità la riforma agraria come asse di riorganizzazione complessiva dell’economia meridionale ed elaborare al tempo stesso una precisa ipotesi di intervento dello Stato, di politica più generale per il paese e quindi per il Mezzogiorno”.

Le parole di Masella rimandano a un altro degli interventi del lontano convegno modenese: quello di Giorgio Napolitano, all’epoca tra i massimi dirigenti del Pci. “Il Piano non affrontava i problemi di struttura cui era legata l’arretratezza del Mezzogiorno (…), non raccoglieva la spinta delle lotte per la terra, non spontaneamente esplose ma tenacemente organizzate, che si erano ampiamente sviluppate nel Mezzogiorno tra la fine del ’49 e gli inizi del ’50. Risultava inoltre assente, ancora alla Conferenza economica del febbraio ’50, il problema della riorganizzazione e dello sviluppo delle aziende Iri”. “Problema di rilievo nazionale – aggiungeva il presidente Napolitano – su cui (…) larghi settori del movimento operaio erano impegnati e a cui erano collegate numerose e significative lotte per la difesa dell’industria; problema, soprattutto, di grande rilievo per il Mezzogiorno, se solo si pensa alle lotte della classe operaia napoletana” (gli atti del convegno di Modena, dimenticavamo, sono in Il Piano del lavoro della Cgil. 1949-1950, Feltrinelli, 1978).

Questi i limiti, dunque. O, almeno, i limiti più immediatamente visibili. Che però non possono certo esaurire la riflessione sul valore del Piano del lavoro, sul suo significato politico, sulla grande lezione civile che esso costituì nell’Italia dei primi anno 50. Ancora le parole di Napolitano a Modena, parole che poi sono ritornate – con un riferimento esplicito appunto alla proposta della Cgil – nel discorso di fine anno del 2011: “Nonostante i suoi limiti il Piano del lavoro ebbe il valore di una grande iniziativa politica, capace di rompere una condizione pericolosa d’isolamento del movimento operaio (…). Ma occorre anche ribadire il valore che più specificamente il Piano ha avuto come affermazione di una linea unitaria, popolare, nazionale del movimento sindacale italiano, come superamento di ogni concezione unionistica ristretta, come capacità di affrontare il nodo sempre complesso del rapporto tra rivendicazioni immediate e mobilitazione della classe operaia nella più vasta lotta per una nuova direzione dello sviluppo economico, per una trasformazione delle strutture economiche e sociali”. Il Piano, allora, come tentativo di rompere la gabbia in cui era costretta la lotta politica e sindacale nell’Italia del tempo, e come rivendicazione per il sindacato di un’autonomia politico-progettuale – Di Vittorio la chiamava “indipendenza” – rispetto ai partiti.

"LA MOSSA DEL CAVALLO". Il Piano, in buona sostanza, come risultato dell’intuizione geniale di un leader, Di Vittorio, che dimostrava di essere non solo un sindacalista ineguagliabile ma anche un grande uomo politico. “Col Piano del lavoro – scriveva Vittorio Foa in Il Cavallo e la Torre – Di Vittorio tentò di spostare l’asse politico dallo scontro sociale immediato a una proposta di sviluppo valida per l’intero paese. Si proponeva una mobilitazione, a partire dalle forze del lavoro, per degli obiettivi importanti sull’energia, la casa, l’irrigazione e la trasformazione fondiaria. Non si trattava certo della fine del conflitto sociale, ma della ricerca di punti di incontro e scontro su un livello diverso, meno devastante di quello in atto”, di una via d’uscita “dalla routine ripetitiva del muro contro muro”. “La mossa del cavallo”, spiegava Foa con una formula presa a prestito dal gioco degli scacchi. Un genere di mossa di cui solo i grandi uomini politici, appunto, sono capaci.

La mossa nell’immediato non diede il risultato voluto. Il capitalismo italiano, ricorda Barca nella sua introduzione al volume sul Piano, fece la scelta “di un duro contenimento dei salari, in controtendenza rispetto a Francia e Germania, e di spingere il proprio recuperato potere in fabbrica fino a comportamenti illiberali”. Tutto questo mentre più in generale emergeva l’incapacità “delle classi dirigenti politiche di ogni parte” di vedere la necessità, “come in ogni altro capitalismo”, di “procedere alla regolazione dei mercati e a un disegno di programmazione sorretto da un’amministrazione riformata”.

Ciò che però nell’immediato – e per il futuro – il Piano del lavoro produsse fu una straordinaria mobilitazione civile. L’R60, il trattore che gli operai delle Reggiane fecero uscire dalla fabbrica occupata – la produzione industriale che, in una visione magari dai risvolti ingenui ma sicuramente anticipatrice, doveva legarsi alla modernizzazione dell’agricoltura –, le lotte analoghe dei cantieri navali di Sestri Ponente, la vetturetta della Fiat, gli edili e i contadini della Val Vomano che strappavano alla Terni la costruzione di una diga, gli scioperi a rovescio, l’idea cioè “che per ottenere una cosa non basta chiederla, bisogna cominciare a costruirla” (Foa), tutto questo significò, per tanti, una straordinaria esperienza di partecipazione, di crescita culturale e politica. E insieme di selezione di una nuova classe dirigente. Sotto questo profilo, inutile aggiungere il perché, la lezione forse più attuale del Piano di Di Vittorio.