Settant'anni fa l'Italia era libera. Quarant'anni fa, il 27 aprile del 1975, Rassegna Sindacale (che nell'occasione uscì assieme a Conquiste del lavoro e a Lavoro italiano, i periodici della Cisl e della Uil) dedicava un dossier a cura di Aldo De Jaco alla Resistenza e alla Liberazione. Al contributo dei lavoratori a quelle giornate storiche. Quaranta pagine fitte di storie, ricostruzioni e bellissime immagini. Ne riproponiamo una parte in questo speciale. Un modo per rileggere e celebrare i fatti del '43-'45. Ma anche un documento storico in sé: una lettura della Resistenza che ci arriva direttamente dagli anni Settanta.

Bombardamenti a tappeto a Torino. La «Villa Perosa» viene centrata dalle bombe e, nei capannoni, gli operai muoiono a centinaia: erano stati chiusi dentro, reparto per reparto per impedire che abbandonassero il lavoro per riparare nei rifugi. La macchina della produzione bellica è più importante della vita degli uomini che la servono.

E' questa però la goccia che fa traboccare il vaso già colmo per la miseria crescente, l'assillo del pane che manca per i figli, il deprezzamento quotidiano della poca moneta che si riceve: il 15 novembre 1943 i Comitati segreti di agitazione rivolgono agli operai torinesi l'appello allo sciopero per ottenere un aumento dei salari del 100 per cento, il raddoppio del quantitativo di generi per minestra distribuito, la regolare distribuzione dei grassi, la consegna di legna e carbone per difendersi dai rigori dell'inverno incombente, un litro di latte per i bambini e il diritto di sospendere il lavoro durante i bombardamenti.

Il 16 gli operai incrociano le braccia alla «Mirafiori» poi in tutti gli stabilimenti FIAT, alla «Spa», all'«Aeronautica», alla «Michelin»... Lo sciopero sarà sospeso il 20 in seguito alle promesse fasciste di accogliere le rivendicazioni operaie; sa-rà ripreso poi il 22, sospeso ancora il 24 e ripreso immediatamente. « Avverto—-comunicava il Brigadführer delle SS Zimmermann mandato per la occasione a Torino — che sono deciso ad agire con la prontezza e la durezza che caratterizzano le Forze Armate germaniche contro tutti gli elementi ostili all'autorità dello Stato, e soprattutto contro i perturbatori dell'ordine e contro chi diserta il lavoro». Ma non bastano le minacce o le rappresaglie, né ha alcun credito fra i lavoratori la pagliacciata macabra dei fascisti che ora accoppiano alla loro azione pratica di manutengoli del nazismo una ostentata repulsa del capitalismo in pro' della «socialità» della loro repubblica.

Fra l'altro i fascisti riconfermano — per allettare gli operai — la validità delle «Commissioni Interne» già abolite nel 1925 e poi ricostituite dopo la caduta di Mussolini. Ma qui si rivela come grande e incolmabile sia l'abisso fra la classe operaia e il nuovo regime nero: le elezioni per le Commissioni Interne falliscono del tutto. Un esempio: alla «Innocenti» di Milano su 5.000 operai si ebbero 297 votanti e delle 297 schede 180 risultarono bianche e 103 segnate con parole d'ordine antifasciste; solo 14 operai su 5.000 avevano votato davvero.

Intanto gli scioperi dilagavano in tutto il nord industriale. A Milano incominciarono il 1° dicembre; al quarto giorno intervennero i tedeschi usando però per il momento più i ricatti e !e minacce che la violenza; fra l'altro si trasferì a Milano il «tecnico» della lotta antioperaia Zimmermann. Riporta un foglio clandestino: «Alle 11,30 arriva il generale Zimmermann il quale intima: "chi non riprende il lavoro esca dallo stabilimento; chi esce è dichiarato nemico della Germania". Tutti gli operai escono dallo stabilimento». Il 16 dicembre il moto si estendeva a Genova e qui i tedeschi, ricevuti espressi ordini da Berlino, usarono l'arma della repressione terroristica puntando le armi e facendo fuoco sugli operai scesi in piazza per manifestare la loro volontà espressa nella parola d'ordine «pane e pace».

Il 17 furono fucilati tre scioperanti e l'esecuzione provocò nuove manifestazioni. Intorno a Natale vi fu una ridda di manifestazioni, scontri di strada, fucilazioni e la lotta continuò così fino a metà gennaio. Era chiaro comunque che l'esperienza genovese imponeva un ripensamento sul rapporto fra azione sindacale e azione armata e questo ripensamento spettava ai comitati sindacali clandestini e al movimento della resistenza. E' un ripensamento che darà i suoi frutti.

Il collegamento infatti con l'azione di massa improvvisa e irruente, organizzata clandestinamente nei luoghi di lavoro e nei quartieri, il ricorso poi, in forme anche originali, all’arma dello sciopero sono la caratteristica particolare della resistenza italiana, caratteristica che la accompagna fino ai giorni dell'insurrezione vittoriosa ed è elemento essenziale della vittoria. Gli scioperi hanno obiettivi economici (la salvezza dalla fame, dal freddo, dai disagi) e obiettivi politici (la fine dell'occupazione tedesca, la difesa dai rastrellamenti e dalle repressioni, la pace); vi sono poi scioperi strettamente collegati alla lotta armata e infine gli scioperi insurrezionali che della lotta armata sono la premessa, il primo atto.

Dopo l'esperienza del dicembre-gennaio 1943-44 il movimento sindacale si organizza in collegamento con i «gruppi di azione patriottica» e prepara uno sciopero generale fissato per il 1° marzo. Dovrebbe riguardare il triangolo industriale (infatti lo dirige il «comitato di agitazione clandestino per il Piemonte, la Lombardia e la Liguria») ma in effetti si estende a tutta l'Italia occupata ponendo in crisi l'intero potenziale industriale nazifascista in Italia. Un milione 200 mila lavoratori incrociano cosi le braccia malgrado le repressioni e le minacce di un licenziamento che comporta la deportazione a lavorare in Germania; lo sciopero - che si accompagna a manifestazioni di donne, azioni dei Gap, occupazioni delle stazioni ferroviarie e a Milano anche al blocco dei tram e, per tre giorni, al blocco del «Corriere della Sera» - si conclude l'8 marzo vittoriosamente malgrado l'ordine di Hitler di deportare il 20 per cento degli scioperanti in Germania.

Un significativo riconoscimento: il 9 marzo 1944 il «New York Times» scrive: «In fatto di dimostrazioni di massa non è avvenuto niente nell'Europa occupata che si possa paragonare con la rivolta degli operai italiani. E’ il punto culminante di una campagna di sabotaggio, di scioperi locali e di guerriglia che hanno avuto meno pubblicità del movimento di resistenza altrove perché Italia del Nord è stata tagliata fuori dal mondo esteriore. Ma è una prova impressionante, che gli italiani, disarmati come sono e sottoposti a una doppia schiavitù, combattono con coraggio e audacia quando hanno una causa per la quale combattere».

Oltre alle azioni generalizzate l'azione sindacale clandestina è presente anche con iniziative locali, per esempio con gli scioperi che intervengono a difendere i partigiani trascinati davanti ai tribunali speciali e minacciati di fucilazione. E' il caso di Forlì dove, in seguito all'uccisione del federale fascista, il tribunale speciale decide per il 17 febbraio 1944 la fucilazione di dieci partigiani. Nella notte gli antifascisti proclamano lo sciopero e alle prime luci dell'alba — malgrado il coprifuoco — decine di staffette spargono le parole d'ordine che bloccheranno la città e le campagne intorno: i fascisti sono costretti ad accettare che l'esecuzione degli ostaggi sia rinviata. Ma basta forse questo? Il giorno dopo lo sciopero si estende, tutte le fabbriche sono ferme, protette da squadre armate. Dalle montagne scendono alcuni reparti partigiani a dar man forte ai gruppi armati cittadini che fiancheggiano gli scioperanti: i fascisti si chiudono nelle caserme. Il 19 nuova giornata di sciopero; infine l'ordine di fucilazione viene revocato definitivamente e la pena commutata in un carcere che, si sa, finirà presto.

Non siamo comunque all'ultimo scontro. Il 25 marzo i fascisti annunciano la fucilazione di 15 ostaggi, un delitto che dovrebbe vendicare il rifiuto dei giovani di rispondere ai bandi di reclutamento. E danno l'annuncio avvertendo che cinque dei quindici sono stati già fucilati. Esplode l'indignazione degli operai. Nelle fabbriche il lavoro si blocca, squadre armate si impossessano dei capannoni, un corteo di operaie assedia la caserma «Ferdinando di Savoia» chiedendo che sia salva la vita dei dieci che non sono stati ancora uccisi. E dopo ore di manifestazioni e scontri si ottiene che il tribunale commuti per i dieci la pena di morte in quella della reclusione. La sera aerei tedeschi sorvolano la città lanciando volantini coi quali si intima la ripresa immediata del lavoro pena la deportazione in Germania.

Ma c'è ancora un dovere da compiere. Il «Comitato segreto di agitazione operaia» ordina che lo sciopero continui ancora per 24 ore: bisogna portare dei fiori sulle tombe dei cinque fucilati. E il giorno dopo operai, contadini, donne, la città intera partecipa al corteo che si dirige verso il cimitero.

Peraltro l'azione di massa non si sviluppa solo nelle fabbriche e nelle città: nelle campagne vi sono altrettanti motivi per unirsi, per organizzarsi, per lottare... Nelle campagne anzi ci sono motivi particolari: la solidarietà con i prigionieri nascosti (50 mila al nord, 30 mila al centro-sud), la solidarietà con i partigiani cui è necessario assicurare i rifornimenti e, di contro, la lotta alle squadre armate di razziatori nazifascisti che vogliono requisire il grano e ogni altro raccolto. Il centro della lotta nelle campagne è la bassa bolognese e la forza d'urto fondamentale sono le mondine che conducono una lunga agitazione che culminerà negli scioperi di metà giugno del '44. Ma ogni famiglia contadina è coinvolta nell'azione, ogni paese ha un suo comitato clandestino. Ad agosto il movimento lancia la parola d'ordine: «non trebbiate, non date il grano ai tedeschi», una parola d'ordine che comporta scontri, sacrifici, sangue e tuttavia risponde profondamente ai sentimenti contadini. Poi si fa un altro passo in avanti: si incomincia a trebbiare in segreto, di notte, e i GAP controllano la distribuzione del grano a prezzo equo alla popolazione prelevando la parte necessaria ai partigiani.

Nell'autunno del '44 una nuova ondata di scioperi unisce le fabbriche alle campagne: sono — dicono i fascisti — degli «scioperi a guerriglia». In effetti si tratta di lotte complesse, cui partecipa tutta la popolazione in solidarietà con gli scioperanti, lotte che comportano anche scontri armati e la deportazione (dopo lo sciopero d'autunno per esempio 186 operai della Pirelli, a Milano, vengono deportati). Nel marzo del 1945 infine scocca l'ora di quella che fu chiamata
«la spallata finale»: Una nuova ondata di scioperi che confluiscono poi tutti nello sciopero generale. Si tratta di difendere le fabbriche dalle distruzioni dei tedeschi che preparano la ritirata, si tratta di preparare — di contro — i giorni d'aprile dell'insurrezione.

E' merito della pertinace azione sindacale clandestina; e della difesa degli operai armata se i tedeschi devono rinunziare infine allo smantellamento — ordinato da Hitler —- di tutto il potenziale industriale italiano; così il 75 per cento degli impianti sarà salvato (anche se un'altra quota poi cadrà sotto i colpi della occupazione alleata che porta spesso le fabbriche rimaste in piedi a una «riconversione» selvaggia dei capannoni in depositi e accampamenti, con relativa distruzione dei macchinari).