Settant'anni fa l'Italia era libera. Quarant'anni fa, il 27 aprile del 1975, Rassegna Sindacale (che nell'occasione uscì assieme a Conquiste del lavoro e a Lavoro italiano, i periodici della Cisl e della Uil) dedicava un dossier a cura di Aldo De Jaco alla Resistenza e alla Liberazione. Al contributo dei lavoratori a quelle giornate storiche. Quaranta pagine fitte di storie, ricostruzioni e bellissime immagini. Ne riproponiamo una parte in questo speciale. Un modo per rileggere e celebrare i fatti del '43-'45. Ma anche un documento storico in sé: una lettura della Resistenza che ci arriva direttamente dagli anni Settanta.

L'Italia liberata è anche l'Italia stravolta dagli effetti della guerra, l'Italia massacrata dai bombardamenti, affamata, corrotta, ferita dalle violenze dell'esercito in rotta e dell'esercito avanzante, incapace di darsi un direzione efficace, di ritrovarsi intorno a un uomo, una scelta, una bandiera. La storia dell'Italia liberata comincia con una pagina di gloria: l'insurrezione vittoriosa di Napoli contro i tedeschi, nelle quattro giornate di fine settembre 1943 che concludono il martirio della città sottoposta per venti giorni agli insulti e ai colpi di un nemico inferocito dal sentirsi incapace di dominarla e non abbastanza forte per distruggerla. Del resto prima di Napoli i tedeschi avevano dovuto affrontare la ribellione nelle campagne intorno a Catania e Matera e poi dovunque, in centinaia di episodi la gran parte dei quali Ia storia di solito non ricorda (come il massacro di 200 contadini di Acerra).

Passata una così atroce esperienza ora la ripresa della vita «normale» nelle province meridionali è estremamente difficile, sia perché I'occupazione alleata determina e controlla questa ripresa in tutti i suoi aspetti, sia perché il crollo dello stato fascista ha lasciato la comunità in condizioni dalle quali solo dopo anni e a prezzo di sofferenze grandi si potrà in qualche modo sollevare. Ecco un dato che può «fotografare» la situazione: rispetto al bisogno medio di calorie (da 2.105 per le attività secondarie a 3.778 per i lavori pesantissimi) nell'Italia meridionale i contadini proprietari di beni ne dispongono di non più del 71 per cento, i professionisti, i commercianti, ecc. il 51 per cento, operai ed artigiani il 41 per cento, gli impiegati il 42 per cento; non è stata calcolata la disponibilità effettiva dei braccianti e dei contadini poveri nelle campagne, dei | disoccupati nelle città.

Già alla fine del 1942, prima del disastro militare e il crollo del fascismo, cosi scriveva il questore di Agrigento in una relazione alle «superiori autorità»: «Gli umili, che qui sono umilissimi per il tenore di vita che hanno condotto da secoli, essendo non un popolo ma una plebe, risentono gravemente delle ristrettezze perché si è diminuita loro anche quella alimentazione primordiale di pane e i pasta, i cui effetti traspaiono nel colorito delle popolazioni specie rurali. E' comprensibile perciò il malcontento, il disagio e l'attesa che queste privazioni non durino a lungo. Le classi dirigenti non hanno fatto mai nulla per questo paese, dimostrando un freddo egoismo. Da una parte gente anche assai ricca, dall'altra una plebe senza istruzione e miserissima. In mezzo i trafficanti della politica delle clientele personalistiche».

La «plebe» comunque non attende che gli alleati siano a un tiro di schioppo per far sentire la sua voce. Proteste si sviluppano nel mezzogiorno per tutto il periodo della guerra in particolare nelle zone dell'entroterra montagnoso, nei paesi isolati dalla vita davvero miserrima, dall'alimentazione basata sul pane di segala e sulle cicorie; nel materano soprattutto. Alla fine del '39 e Bernalda i contadini occupano le terre demaniali; nel '40 si manifesta a Calciano contro il commissario prefettizio e a San Giorgio Lucano per la mancanza di grano per panificare. Una vera e propria sommossa si sviluppa a San Mauro Forte, la gente invade il municipio e tenta di appiccarvi fuoco; all'arresto di 13 braccianti si risponde con una nuova manifestazione e con l'uso delle armi sicché i carabinieri sono costretti a rilasciare gli arrestati. Nel 1941 si manifesta a Trinitapoli, Torremaggiore e Vieste in provincia di Foggia e poi a Cargnano Varano. Si manifesta anche in provincia di Avellino e di Benevento e a Cerignola. Il perché delle manifestazioni è chiaro: la mancanza di viveri, gli inasprimenti fiscali, la consegna obbligatoria degli oggetti di rame, la disoccupazione.. La protesta si generalizza infine col tesseramento del pane (1° ottobre '41), che comporta l'affamamento di popolazioni che solo o quasi di pane possono sostentarsi: cortei e proteste (di donne soprattutto) a Santa Maria in Vico, Casoria, Marcianise, a Casalfiore, a Bisceglie, a Apricena, Carlantino, Lioni...

A Monteleone, in provincia di Foggia, avviene il 23 agosto 1942 l'episodio più violento e significativo: un gruppo di donne manifestano chiedendo che i mulini macinino più grano di quanto non sia consentito, al rifiuto delle autorità locali la manifestazione si tramuta in rivolta con lancio di pietre e colpi d'arma da fuoco; vengono incendiati la porta della caserma dei carabinieri, il municipio e l'ufficio ammassi granari. Accorrono le autorità prefettizie... E i fascisti? Niente più fascisti.

E' evidente che queste manifestazioni, via via che la guerra si avvicina sempre più chiaramente improntate a una generale rivendicazione di pace, esprimono la crisi, anzi sono lo sbocco di una lunga crisi del rapporto fra il sud e il fascismo; tuttavia le condizioni oggettive delle popolazioni meridionali e il particolarismo dei loro orientamenti sono tali che poi, subito dopo la liberazione, lo stesso stato d'animo può rivolgersi anche contro gli antifascisti che sembrano esprimere il nuovo potere anzi, per certe zone niente affatto partecipi del corso degli avvenimenti, sono il potere di sempre.

Del resto anche questo «potere» è in crisi. Il governo della monarchia e dei generali esiste in quanto lo vogliono — e nella misura in cui lo vogliono — gli alleati, i partiti antifa-scisti sono arroccati su posizioni pregiudiziali (contro la monarchia, contro Badoglio) che li escludono dal gioco politico. Mentre gli uni cercano di rifare l'apparato dello stato sulla base di «elementi d'ordine, di sicura fede monarchica e di specchiata onestà» (circolare ai prefetti del generale Badoglio) e reagiscono all'attività dei partiti annotando (sempre Badoglio): «dire a S.E. il prefetto che non si lasci prendere la mano e, se occorre, faccia arrestare i capoccia», gli altri, i «capoccia» appunto dell'antifascismo, sono paghi della loro unanime quanto sterile intransigenza. Al congresso dei CLN dell'Italia liberata, tenuto a Bari il 28 e 29 gennaio del '44, i partiti antifascisti ricercano e trovano così una linea che li presenta uniti nella convinzione di essere «espressione vera ed unica della volontà e delle forze della nazione», senza curarsi di avere alle spalle una durissima e amara realtà di guerra, di fame, di disfacimento nella quale non possono incidere e con la quale anzi hanno pochissimi contatti.

Parallelamente al congresso dei CLN si tiene a Bari un convegno sindacale al quale partecipa Lizzadri che vi porta la eco del lavoro unitario svolto nella capitale (in preparazione del convegno, d'altra parte, già il democristiano Silvio Gava aveva presieduto una riunione delle leghe «bianche» dichiarandosi d'accordo col processo unitario in corso). Differente e grave è la situazione a Napoli dove l'appello unitario non viene accettato da tutti, anzi si schierano contro di esso settori dei partiti operai, gruppi che si definiscono «azionisti» e anche il sindacalista democristiano Colasanto col suo seguito. Non sarà davvero facile far prevalere lo spirito unitario: nel novembre del 1943 si è costituita a Napoli una Camera del Lavoro collegata al «segretariato meridionale» di una confederazione dalla quale sono esclusi i cattolici e questa confederazione tiene a Salerno, a febbraio del 1944, un suo «convegno nazionale» che testimonia dei suoi effettivi legami con molti centri operai della Campania Seguiranno mesi di polemiche anche assai dure (in particolare a proposito di due fallimentari iniziative: lo sciopero generale del 4 marzo e il comizio del 12 indetto dalle sinistre — in una Napoli travolta dalla fame e dalla furia di sopravvivere — per protesta contro un discorso di Churchill). II tormentoso processo di ricerca dell'unità durerà comunque fino al congresso sindacale unitario di Napoli del 28 gennaio - 1 febbraio 1945 che vedrà riuniti 300 delegati di un milione e 300.000 organizzati dell'Italia liberata.

II congresso approva il «patto di Roma» e la elezione della segreteria confederale nelle persone di Grandi, Di Vittorio e Lizzadri, elabora inoltre un piano di rivendicazioni per l'adeguamento delle retribuzioni delle categorie peggio pagate (statali e braccianti), l'adozione della scala mobile per tutte le categorie, la lotta al mercato nero, l'abolizione dei cointratti di lavoro fascisti e la stipulazione di nuovi accordi, l'elaborazione di un «programma nazionale di ricostruzione economica, come strumento di solidarietà e di effettiva unità nazionale», la derequisizione degli stabilimenti requisiti dagli anglo-americani, la nazionalizzazione delle industrie chiave, la riforma agraria.

Giunge la notizia al congresso che due sindacalisti emiliani, Giuseppe Bentivoglio e Paolo Fabbri, sono stati fucilati dai nazisti nel tentativo di attraversare le linee per raggiungere a Napoli l'assise sindacale.