Il Mese, luglio 2010

Il disegno di legge Gelmini per la riforma universitaria, approvato in prima lettura dal Consiglio dei ministri il 16 marzo scorso, prevede, fra le altre cose, che i ricercatori a tempo indeterminato siano esclusi dagli organi di governo degli atenei e dalle commissioni di valutazione. La strada è quella delineata da una legge che si deve a Letizia Moratti, legge che prevede l’abolizione del ruolo di ricercatore a tempo indeterminato dal 2013. Al suo posto andrebbe il ricercatore a tempo determinato, che verrebbe direttamente chiamato, quando possibile e necessario, dall’università per un posto da associato.

Gli apologeti della riforma spiegheranno che abolendo il terzo (e ultimo) livello accademico si snellirà la burocrazia e il cursus di incarichi, cosicché avremo un futuro di professori associati giovanissimi e bravi. In tutta onestà, mi pare che si tratti di qualcosa di simile a sostenere che l’introduzione di tante lotterie è un metodo sicuro per abolire la povertà. Se la fuga di cervelli è diventata un noioso luogo comune, per quanto goda di chiari e indiscutibili riscontri effettivi, nella retorica ancipite e un po’ schizofrenica sull’università, per cui al mattino si scagliano strali contro la dispersione dei ricercatori all’estero e la sera si lanciano invettive contro concorsi truccati e assenza di controlli per i docenti fannulloni (senza parlare dell’idea diffusa in ogni dove che studiare significhi non fare nulla dalla mattina alla sera), non si dice mai la cosa più ovvia. Ed essenziale.

Il problema fondamentale dell’università italiana, la fonte purissima di tutti i guai che fluiscono nella palude infetta di ministeri, rettorati ed editoriali sui quotidiani, è che in Italia chi fa ricerca, fino a 40 anni suonati, non può sperare di guadagnare con stabilità il necessario per vivere. Prolungare ulteriormente il periodo di precariato e incertezza che precede l’inizio ufficiale (a livello contrattuale, che è l’unica ufficialità possibile) della carriera accademica è, posso dirlo con certezza, la cosa peggiore che può succedere oggi all’università italiana. Pensare che eliminando un grado accademico si diminuirebbe il tempo del precariato è, evidentemente, pensiero nemico di ogni logica.

In questo pezzo cercherò di spiegare questa mia affermazione risoluta, descrivendo quello che in linea di massima avviene oggi tra il conseguimento della laurea e, presupponendo un lieto fine niente affatto scontato, la vittoria di un concorso per diventare ricercatore. Per farlo farò riferimento alla mia esperienza personale. Ho ventinove anni e sto finendo un dottorato in Storia della filosofia. Si potrebbe obiettare che la mia esperienza è parziale e che le cose, per le facoltà scientifiche, vanno assai meglio. La mia esperienza è sicuramente parziale, ma conosco tante persone che hanno fatto dottorati in fisica, matematica, giurisprudenza e, a livello di carriera accademica, posso garantire che le cose, per loro, non vanno affatto meglio.

Di fatto (e già non di diritto) il primo passo della carriera accademica in Italia è il dottorato di ricerca. Dura tre o quattro anni, può essere con o senza borsa di studio (aumentata di recente da 800 a 1.000 euro al mese) e vi si accede tramite concorso pubblico. Di tutti i concorsi di cui si compone il percorso accademico è probabilmente quello meno pilotato (tornerò ovviamente sul concetto di concorso pilotato, meno immorale rispetto al suono delle parole). Avviene che il dottorato di ricerca sia vinto anche da persone che non hanno nessun rapporto con la commissione giudicante, persone che addirittura si sono laureate in università diverse da quella che ha bandito il concorso.

Ovviamente più spesso anche il concorso del dottorato è pilotato, i professori fanno vincere i propri allievi più cari (o gli allievi più cari di qualche loro collega) per meriti accademici o extra- accademici. Potrò sembrare ottimista, ma nella maggioranza assoluta dei casi di mia conoscenza gli aspiranti dottorandi favoriti all’esame lo erano per meriti accademici: un professore appoggiava un candidato perché lo riteneva un ottimo studente. Certo, alcuni candidati sono appoggiati per il loro servilismo, la loro avvenenza fisica o per relazioni di parentela o familiari (anche qua, però, bisogna stare attenti prima di iniziare la caccia alle streghe: di figli che fanno il mestiere dei padri è pieno il mondo, e il fatto di avere lo stesso cognome di un professore universitario non è – fino a prova contraria – segno di insormontabile inettitudine alla ricerca).

È opportuno ricordare che il concorso è composto da una prova scritta e da un colloquio orale. Laddove la prova scritta è un tema, è purtroppo impossibile eliminare la discrezionalità e l’arbitrio nel giudizio. La valutazione oggettiva di un elaborato o di un’idea è al di là delle possibilità umane, si farebbe prima ad abolire il concorso (e anche su questo tornerò). Ad ogni modo vincere un dottorato non è impossibile, i posti non sono pochissimi. Più complesso è vincere quello con borsa (i posti sono circa la metà).

Se la vita finisse a ventotto anni e la carriera accademica si limitasse al dottorato, non ci sarebbero grandi problemi. Il problema è che tra la discussione della tesi di dottorato e la vittoria del concorso per ricercatore passano di media dodici o tredici anni, soltanto la metà dei quali sono retribuiti. A questo punto è utile fare riferimento a un ipotetico bravo studente e seguirlo passo passo nella sua vita immaginaria, dalla laurea in poi. Questo studente si laurea con il massimo dei voti a ventiquattro anni (in regola) in un corso quinquennale. Il professore con cui si è laureato e che lo reputa molto promettente lo invita, ammiccando, a tentare il concorso di dottorato. Nel frattempo è novembre e per il concorso deve aspettare il settembre successivo, non può nemmeno provare a vincere una borsa di collaborazione con la biblioteca o cose così perché ormai si è laureato e, per l’università, non è più uno studente. Comunque, dopo un anno più o meno buttato (ma il nostro studente coscienzioso ha letto molti libri interessanti utili per il futuro della sua ricerca e ha fatto lavori poco impegnativi e part-time per guadagnare qualcosa) e a reddito zero, vince, a venticinque anni, un dottorato con borsa di studio. In poco più di tre anni – nei quali aiuta il suo professore con le lezioni, con gli esami e la preparazione di alcuni annosi progetti di ricerca con cui ottenere i, pochi, fondi concessi dal ministero – consegna la tesi, ben fatta, rispettando la scadenza di febbraio (la borsa però gli è finita il 31 ottobre e si sta già domandando come fare con l’affitto).

La discussione della tesi è a giugno, lui chiede al suo professore, molto soddisfatto del lavoro, che succede ora e si sente dire che molto probabilmente il febbraio successivo ci sarà un concorso per un assegno di ricerca biennale a cui, ammiccamento, il nostro potrà partecipare anche se ovviamente lui, il professore, non può promettere niente. Dopo un anno e mezzo in cui il nostro non ha visto il proverbiale becco di un quattrino dall’università vince il sospirato concorso. Per due anni e poi altri due di prolungamento dell’assegno di ricerca è a posto, con i suoi 1.100 euro al mese. Intanto fa ricerca, fa esami, lezioni e partecipa sempre più alle vicende burocratiche del dipartimento cui afferisce. Ha pubblicato un paio di libri su questioni tecniche importanti ma oscure (perché è giovane e non poteva certo occuparsi subito delle grandi questioni riservate agli ordinari) e una decina di articoli su riviste scientifiche.

A questo punto, tra una cosa e l’altra, ha trentacinque anni e l’unica cosa cui può sperare è un posto da ricercatore. Intanto può sperare in contratti per docenze da 2.000 euro l’anno (poca roba, ma meglio di niente, anche se ha letto sul giornale che il ministro li vuole abolire) e qualche oscura partecipazione a strani progetti di orientamento e tutorato. Si chiede se non sia il caso di provare a lavorare, ma, obiettivamente, ha trentasei anni, nessuna seria esperienza lavorativa, nella vita ha solo studiato, tanto e bene, ma vaglielo a dire alle aziende che studiare è utile.

Comunque arriva il lieto fine che abbiamo annunciato. Dopo quasi sei anni vince il concorso, nell’università di una città molto lontana da quella in cui ha studiato nel quadro di uno scambio di favori tra il suo professore (che per fortuna non è nel frattempo andato in pensione) e un professore di là. Gli altri candidati, al concorso, lo hanno guardato male, uno di loro – nonostante avesse meno titoli di lui – ha scritto una lettera al preside di facoltà denunciando il concorso truccato. “E ci credo! – sbotta lui a cena con i suoi che in tutti questi anni lo hanno sostenuto secondo le loro possibilità –. Dopo tutto questo tempo a fare lo schiavo senza soldi ci mancava solo che non truccavano il concorso”.

La storia è inventata, ma la sua plausibilità è totale, probabilmente questo è quello che è capitato a molte persone, persone cui, ripeto, è andata bene. Per molti il posto da ricercatore non arriva mai. Conosco un ragazzo che a trentasette anni, nonostante fosse il prossimo raccomandabile per un ipotetico concorso che ci sarebbe stato da lì a dieci anni (più verso i dieci anni che verso il lì) ha deciso di mollare tutto e andare a fare il contadino con la moglie – con cui, nel frattempo, aveva fatto un figlio. Dalla storia dovrebbe comunque essere facile fare una lista dei problemi della pre-carriera accademica. La struttura a piramide rovesciata, il sistema dei concorsi pilotati e, sopra ogni cosa, le continue e interminabili interruzioni di reddito.

In realtà l’immagine della piramide rovesciata è fuorviante. In questo momento è arduo l’accesso a qualsiasi lavoro. Il problema è la struttura a clessidra, per cui esistono tantissimi dottorandi per pochissimi posti da ricercatore. Una possibile soluzione a questo problema è piuttosto semplice. La drastica diminuzione del numero dei dottorati e l’eliminazione del dottorato senza borsa. Per chi vuole approfondire le sue competenze dopo la laurea si possono ipotizzare più master o forme di specializzazione alternative. Oppure si può scindere il dottorato dalla carriera accademica, introducendo una nuova forma di reclutamento, subito dopo la laurea. C’è chi ha ipotizzato una serie continua di contratti di apprendistato, per cui, dopo dieci anni, se si è fatto il proprio dovere, si viene assunti. Il succedersi di concorsi pilotati ha due conseguenze nefaste. Deresponsabilizza colui che raccomanda e favorisce il candidato (scelto da una commissione di cui il raccomandatore spesso non fa neanche parte) per cui se un inetto vince un concorso nessuno può essere accusato di nulla; e introduce un’assoluta incertezza sul destino dello studioso tra un contratto finito e un nuovo concorso che potrebbe non arrivare mai (senza contare i tempi burocratici assai lunghi).

In tutta onestà ritengo che la cooptazione diretta e palese risolverebbe molto. Le interruzioni di reddito fanno sì che oggi la carriera accademica possa essere intrapresa, grossomodo, solo da tre categorie di studenti: quelli ricchi di famiglia, quelli la cui dedizione allo studio supera il senso pratico o che comunque si accontentano di vivere in povertà pur di fare ricerca e quelli talmente sfiduciati nei propri mezzi da pensare che fare i portaborse per dieci anni a qualche professore sperando nella futura riconoscenza sia comunque la vita migliore cui possono ambire (contando anche sul fatto che quelli più bravi prima o poi si stuferanno e cercheranno lavoro altrove o all’estero – dove, come vuole il fondatissimo luogo comune, le interruzioni di reddito non ci sono e si è pagati molto meglio).

Si potrebbe obiettare che uno deve fare ricerca per passione. Sbagliato, per passione uno fa il poeta e il cantante, non il ricercatore universitario. Tutti i problemi e le soluzioni si riducono a un solo punto. Si deve fare in modo che la carriera accademica inizi subito dopo la laurea e permetta a chi la sceglie (e viene scelto) di vivere dignitosamente.

* Carlo Carabba è nato a Roma nel 1980. Si è laureato in Storia della filosofia moderna con una tesi su un manoscritto francese inedito del XVII secolo (da Carabba trascritto e commentato), tesi che sta per essere pubblicata da Olschki. Dottorando in Storia della filosofia alla Sapienza, l’anno prossimo discuterà la sua tesi sui rapporti tra Francis Bacon e Thomas Hobbes. Per l’università ha tenuto seminari su Bacon, Hobbes, San Bernardo di Chiaravalle e ha partecipato alla didattica della cattedra di Storia della filosofia moderna. Dal 2009 è caporedattore della rivista Nuovi Argomenti e collabora con il quotidiano Il Riformista. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta di poesie Gli anni della pioggia (peQuod) che ha vinto il Premio Mondello per l’opera prima. Suoi racconti e scritti critici sono apparsi per vari editori (tra cui minimum fax e Fandangolibri).