Il mio compito di psicologa psicoterapeuta all'interno dello Sportello di Ascolto, inserendosi in una rete formata anche da altre figure professionali, si estrinseca, nella sua prima fase, attraverso il primo approccio alla persona; si tratta di un momento iniziale molto importante, un breve spazio di tempo nel quale il professionista deve riuscire ad instaurare un clima di fiducia e di partecipazione empatica con l’utente facendo in modo che quest’ultimo non rinunci alla richiesta di aiuto.

La prima accoglienza presuppone un atteggiamento di cortese disponibilità da parte dell’interlocutore, di apertura e di calore, una capacità di mettere l’utente a proprio agio e di farlo sentire compreso e sostenuto; allo scopo, è importante che essa si svolga in un “setting” opportuno, in un contesto di tipo familiare nel quale la persona che si rivolge per una richiesta di aiuto, per esprimere un disagio, possa sentirsi libera di parlare delle proprie cose, di comunicare le proprie emozioni e impressioni.

L’ascolto, inoltre, richiede la capacità dell’interlocutore di prestare attenzione a tutto ciò che l’utente presenta, ma un’attenzione sobria e rispettosa, non intrisa di curiosità.

Si parla di “ascolto attivo”, di uno spazio condiviso con l’utente, nel quale il terapeuta fa da specchio alle parole ed ai contenuti che l’altro esprime. Gli interventi del professionista devono servire a riformulare, chiarificare e ampliare i contenuti che l’utente conferisce durante le sedute; si tratta di un counselling, di un sostegno psicologico breve, della durata di otto sedute, al termine del quale il terapeuta fa al cliente quella che in termine tecnico viene chiamata “restituzione”, ovvero propone a quest’ultimo delle alternative che possono consistere nell’intraprendere un percorso terapeutico o, a seconda dei casi, nel rivolgersi ad altre figure professionali.

Quando, invece, l’utente ha subito violenza fisica o psicologica, il compito del professionista diventa più delicato; si tratta di persone molto fragili, disorientate, prostrate; chiedono spesso scusa, ritengono di non meritare ascolto, mostrano di solito un atteggiamento rinsaccato, respirano poco ed il loro volto è triste e spento. Si presentano allo sportello pensando di non avere più scampo, di non poter avere una vita migliore. Spesso, dopo il primo colloquio, ci ripensano e non tornano più perché sono rassegnati al proprio destino.

In questo caso, il primo ascolto rappresenta un momento cruciale. Infatti, nel corso del colloquio iniziale, la vittima deve essere lasciata libera di parlare, di esprimere il proprio dolore, di raccontare quegli eventi intimi e penosi che hanno contraddistinto la propria esistenza fino a quel momento. Il terapeuta o l’operatore che si occupa della prima accoglienza deve partecipare empaticamente al racconto del soggetto, deve ascoltare senza intervenire, deve incoraggiare il racconto senza forzarlo con domande precise. L’utente deve potersi sentire davvero a proprio agio per riuscire a narrare eventi così intimi e dolorosi per i quali prova colpa e vergogna. Il soggetto non deve essere compatito con frasi come: ”poverina”o ”che situazione terribile”, né il suo racconto deve essere sminuito con frasi del tipo: ”ma non si preoccupi” o ”tutto passa”o altro ancora. La persona che si rivolge all’operatore deve percepire di essere creduta, che ciò che racconta venga accolto dall’interlocutore con la delicatezza ed il rispetto che si deve alla drammaticità degli eventi narrati.

Un altro punto cruciale è rappresentato dal fatto che molte persone, in particolare le donne, non sono consapevoli di far parte di una dinamica violenta. Spesso, dunque, la decisione di chiedere aiuto non deriva da una consapevolezza acquisita bensì da un disagio divenuto oramai intollerabile. Ed è solo nel momento in cui il racconto viene reso a un interlocutore che lo sappia chiarificare e riformulare, che la donna si rende conto di vivere una dinamica disfunzionale, di riprodurre con la relazione affettiva attuale, una relazione parentale precoce altrettanto disfunzionale. Il soggetto che subisce violenza ritiene di non meritare nulla, attribuisce scarso valore alla propria persona. Il sostegno psicologico, per questo motivo, deve mirare ad un potenziamento e ad una valorizzazione delle risorse interne della persona, a un lavoro di ristrutturazione del concetto di sé, ad una graduale acquisizione di consapevolezza rispetto alla propria esistenza passata, alle dinamiche sottostanti ad essa e ad uno stimolo verso l’autonomia e l’autorealizzazione.