Il recente decreto attuativo sulla produttività della legge di stabilità 2016 ha rilanciato al centro del dibattito pubblico il rapporto tra welfare e relazioni industriali. Da un modello di “separazione delle competenze”, tipico del sistema fordista, si è passati nel tempo a diverse forme di contaminazione. Pur con notevoli varianti e spazi di comunicazione, fino agli anni ottanta ha prevalso una distinzione tra il ruolo dello Stato e quello delle parti sociali. Mentre le seconde si muovono a livello micro (aziendale) e macro (nazionale), dentro un percorso negoziale coordinato di riequilibrio dello sviluppo dell’economia, lo Stato si impegna a investire nelle politiche di welfare.

Le profonde trasformazioni sociali, occupazionali, produttive e demografiche a cavallo degli anni ottanta e novanta producono una tale intensificazione e diversificazione della domanda di prestazioni sociali da mettere in crisi il modello preesistente e aprire a nuovi spazi di interazione tra welfare e relazioni industriali. In questo contesto, la strategia sindacale cerca di inseguire la diversificazione della domanda di protezione sociale lungo quattro diverse direttrici di confronto, intensificando e strutturando pratiche già esistenti nel codice genetico sindacale: la concertazione, ovvero un processo decisionale costruito sulla triangolazione relazionale tra governo e parti sociali; il bilateralismo, inteso sia come estensione in chiave mutualistica di spazi di rappresentanza nelle aree a più alta frammentarietà produttiva, sia come cogestione di pezzi di welfare; la contrattazione sociale territoriale, ovvero il confronto programmatico con le amministrazioni locali; la contrattazione decentrata del welfare occupazionale in azienda.

Se la concertazione rappresenta ormai una pratica caduta in disuso, il bilateralismo continua a vivere stimolazioni normative e contrattuali a corrente alternata, senza però cambiare la propria natura “riparatrice” delle asimmetrie di un sistema di protezione sociale, e di rappresentanza sindacale, a misura della grande industria manifatturiera. Non solo. L’alta frammentarietà degli organismi bilaterali produce una stratificazione delle prestazioni sociali e frena la sperimentazione di strumenti innovativi adatti ai nuovi bisogni sociali. Basti pensare che un recente censimento dei soggetti bilaterali prodotto da Italia Lavoro (2014) conta ben 994 organismi bilaterali in Italia, di cui 436 enti bilaterali “in senso stretto”. Ma la frammentarietà fa rima con disuguaglianza. Emblematico è l’esempio riportato nell’ultimo rapporto prodotto dal laboratorio di ricerca Secondo Welfare: con riferimento al solo terziario, nel 2014, un lavoratore lombardo con un disabile a carico non avrebbe avuto nessun sostegno economico se milanese, 400 euro se di Lecco e 1.500 euro se di Bergamo.

Figlia di una cultura sindacale confederale, la contrattazione territoriale sociale continua a rappresentare per il sindacato un’importante arena di confronto attraverso cui far valere la propria forza contrattuale oltre i confini della rappresentanza sindacale. Anche durante la crisi, in Emilia Romagna la produzione negoziale ha continuato a segnare risultati di rilievo, raggiungendo nel 2015 163 accordi per un totale di 197 Comuni sottoscrittori, con una copertura del 72% dei residenti nella regione. Il livello aziendale da sempre rappresenta un luogo di sperimentazione di pratiche di welfare: basti pensare al caso-scuola della Olivetti o a esempi più recenti come Luxottica. Non è quindi tanto la presenza del welfare aziendale a colpire l’attenzione degli osservatori quanto la sua rapida espansione nel corso degli ultimi anni.

Molte sono le ricerche dedicate alla misurazione della diffusione (e della qualità) delle pratiche di welfare aziendale e/o occupazionale. I diversi approcci di ricerca stentano ancora a raggiungere risultati convergenti ed evidenziano come, su scala nazionale, sia necessaria un’attività di monitoraggio sulla diffusione delle pratiche di welfare che sappia muoversi con strumenti omogenei e condivisi nella disarticolata composizione delle prestazioni erogate. Nonostante le difformità di metodo è comunque possibile cogliere spunti di riflessione trasversali ai vari approcci di ricerca.

• I Piani di welfare aziendale (Wa) attivati, seppur in crescita esponenziale, sia dal punto di vista numerico, sia dalla gamma di servizi erogati (circa un terzo delle grandi imprese attiva contemporaneamente almeno quattro interventi di welfare), confermano e accentuano una molteplicità di dualismi: 1) un dualismo strutturale legato alla dimensione delle aziende erogatrici; 2) un dualismo territoriale, che vede il Nord nuovamente favorito rispetto a un Sud caratterizzato dalla minor presenza di imprese più strutturate; 3) un dualismo settoriale, da un lato industria e servizi avanzati, dall’altro terziario tradizionale e settore pubblico; 4) un dualismo contrattuale, solo la metà delle imprese prevede pratiche inclusive verso gli outsider (chi non ha un contratto a tempo indeterminato); 5) un dualismo professionale, che vede privilegiate le qualifiche professionali più alte, sia in termini di gamma di servizi offerti che di budget disponibile (l’innalzamento del tetto da 40 a 50mila euro per le retribuzioni annue lorde ammesse alla detassazione dei premi di produttività nella legge di stabilità 2016 sembra confermare questo orientamento); 6) un dualismo tematico, con la replicazione dei differenziali tipici del welfare pubblico caratterizzati da diffusione maggiore per l’area previdenziale e sanitaria e minore per le prestazioni socio-assistenziali.

• Nella maggior parte dei casi il Wa è frutto di una volontà unilaterale del management e la rappresentanza dei lavoratori è coinvolta tra il 40 ed il 60% dei casi.

• Il management tende ancora a gestire in modo unilaterale quegli interventi di Wa più orientati a sviluppare la reputazione aziendale nel contesto territoriale, cercando il confronto sindacale solo per i temi più inerenti all’orario di lavoro.

• Le finalità dei piani di Wa cambiano a seconda del soggetto interpellato: se tendenzialmente per il management pratiche di Wa mirano alla fidelizzazione e all’aumento della produttività indotta da un miglioramento del clima aziendale, per la parte sindacale prevale il tema del trade off salario/prestazioni, ovvero il tentativo di sostituire pezzi di retribuzione con servizi di welfare.

Tra tutte le criticità strutturali, è la questione dimensionale a costituire l’elemento di più forte disturbo alla diffusione del welfare aziendale. Da una recente ricerca (Welfare Index Pmi, 2016), condotta su oltre duemila piccole e medie imprese e promossa da Generali Italia con la partecipazione di Confindustria e Confagricoltura, si rileva come il 48% delle imprese abbia introdotto interventi di welfare applicando quanto previsto dai ccnl, il 21% sia prevalentemente dedicato a iniziative di conciliazione vita-lavoro, il 9,5% a interventi di welfare territoriale (ovvero a iniziative allargate ai famigliari o mirate alla reintegrazione dei soggetti deboli), il 10,5% a prestazioni di people care (ovvero iniziative nelle aree delle risorse umane e dei fringe benefit) e il 10,6% sia rappresentato da imprese beginner, con un’esperienza solo marginale di welfare aziendale.

Anche in questo caso, la definizione della gamma di servizi offerti a titolo di welfare appare così ampia da renderne difficoltosa la valutazione e la comparazione con altri studi: da segnalare come i servizi di welfare più diffusi (il 64,1%) riguardino formazione e sostengo alla mobilità, aree queste sicuramente più orientate a politiche di human resources e meno di welfare. Maggiori investimenti economici in pratiche di Wa si registrano per le imprese più attente al work-life balance. Da evidenziare, infine, come solo nel 22% dei casi l’introduzione del welfare aziendale sia stata condivisa con la rappresentanza sindacale, quota questa sostanzialmente in linea con l’estensione della contrattazione decentrata (21,7%, Istat 2015).

Diverse sono le sperimentazioni di percorsi di superamento delle criticità sottostanti la relazione tra piccole e medie imprese e welfare occupazionale. In linea sintetica, sono distinguibili tre diversi approcci: • il contratto di rete tra imprese per la promozione di servizi di welfare (sull’esempio del progetto Giunca – Gruppo di imprese attive nel collaborare attivamente); • la costituzione di un network di imprese pubblico-privato sostenuto e gestito da un erogatore privato di servizi (sull’esempio del progetto Imprese e Persone (Iep) Network); • la costituzione di reti di imprese su iniziativa delle associazioni datoriali (Welfa-Re di Reggio Emilia), di amministrazioni locali (le alleanze territoriali per la conciliazione in Lombardia) o con un accordo di distretto (il welfare di distretto di Prato).

Le diverse forme assunte nel tempo dal rapporto tra welfare e relazioni industriali mostrano come il sindacato abbia prevalentemente preferito muoversi lungo modelli partecipativi. Partecipazione nella forma, come il bilateralismo, o nel processo decisionale, come la concertazione, o nell’estensione applicativa, come la contrattazione territoriale. La via contrattuale al welfare a livello decentrato è una via sì praticata, ma che presenta ancora molte criticità irrisolte. Il decreto sulla produttività recentemente approvato nella legge di stabilità 2016 ha sicuramente il merito di aver aperto a un pieno coinvolgimento del sindacato nella definizione del welfare occupazionale, ponendo fine a una condizione davvero paradossale, per la quale per alcuni pezzi di welfare si prediligeva la via del confronto e per altri la via unilaterale. Ma la natura del welfare occupazionale resta partecipativa, non conflittuale, e avere inserito questo tema in un’arena ad alta intensità di conflitto, come quella della contrattazione della retribuzione correlata alla produttività, rischia di snaturare il concetto stesso di welfare. Questa incongruenza solleva inevitabilmente un interrogativo su cosa sia welfare e cosa invece debba ricadere dentro una prassi premiante più propria dei fringe benefits.

Gli interventi di welfare per essere tali dovrebbero essere rivolti alla più ampia platea possibile e, se selettivi, concentrare il discrimine sull’intensità del bisogno sociale, non sulla produttività, e ancora, dovrebbero avere una valenza sociale. Per sottrarre il welfare dall’arena del conflitto sarebbe opportuno riportarlo dentro canali a più forte caratterizzazione partecipativa o formale, magari prediligendo le commissioni paritetiche aziendali, la cui costituzione è incentivata anche dallo stesso decreto sulla produttività, o territoriale, con la costituzione di fondi territoriali che spingano il welfare capitalism verso la sfera più larga della cittadinanza. In questo modo, si potrebbe coniugare welfare e organizzazione del lavoro, uscendo dalla stretta logica di scambio cui la contrattazione inevitabilmente riporta e tentare di contrastare i tanti dualismi che ancora presenta il welfare occupazionale.

Davide Dazzi e Carlo Fontani sono ricercatori dell’Ires Emilia Romagna