Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n.2 2016 de La Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista

Da parecchi anni, la sanità pubblica italiana si sta indebolendo. Le cause non sono solo riconducibili alle (pur importanti) restrizioni economiche dovute alle difficili condizioni generali del Paese, ma soprattutto a un crescente disimpegno nei confronti delle politiche di tutela della salute che si manifesta in un atteggiamento di laissez faire: un mix di indifferenza e liberismo che, di fronte ai problemi, tende a confidare nell’evoluzione naturale della situazione, nella convinzione che un qualche esito, positivo o comunque non indesiderato, sia in ogni caso raggiungibile anche in assenza di qualunque intervento.

Per la verità più che di una consapevole adesione ai principi del liberismo economico si ha l’impressione che si tratti di un mix di inesperienza e compiacenza: inesperienza rispetto alla complessità del settore e compiacenza rispetto agli interessi del mercato della salute. Ma purtroppo il Servizio sanitario nazionale non è un sistema che, una volta introdotto, è in grado di andare avanti da sé: perché funzioni bisogna metterci, ogni giorno, impegno, responsabilità, passione e professionalità. Cosa che fanno molti operatori che tenacemente si ostinano a opporsi all’indifferenza, si impegnano a garantire servizi ai cittadini e sopportano condizioni di lavoro talvolta persino poco dignitose.

Ma il loro impegno non è più sufficiente a colmare l’indifferenza di molti vertici. Troppo spesso le amministrazioni regionali si limitano a restringere l’offerta di servizi sulla base delle risorse che lo Stato trasferisce loro, diventando amministrazioni di mera spesa, rinunciando a svolgere quel ruolo che negli anni passati avevano esercitato con una notevole forza politica (in gran parte perduta) e una buona capacità tecnica (ancora in gran parte presente). Non è certo possibile generalizzare, ma più elementi portano a ritenere che la qualità delle politiche messe in atto da tutte le Regioni è nettamente peggiorata nel corso degli ultimi anni, con il risultato che le realtà storicamente più solide e organizzate riescono a vivere di rendita (ma ancora per quanto?), mentre quelle meno mature mostrano difficoltà crescenti.

Al contempo, le politiche sanitarie nazionali si esercitano di fatto principalmente sui dati di bilancio, trascurando il lavoro di monitoraggio delle garanzie da assicurare ai cittadini che peraltro avrebbe dovuto essere il cuore delle modifiche del Titolo V della Costituzione. In tale contesto, paradossalmente, il tema più dibattuto non è quello delle conseguenti diseguaglianze nell’accesso ai servizi, bensì quello dell’inefficienza della spesa sanitaria privata e della presunta necessità di una maggiore intermediazione finanziario-assicurativa. Su tale tema, molte affermazioni discendono da luoghi comuni incapaci di mettere a fuoco il vero quesito cui dovremmo dare risposta: quali soluzioni sono praticabili nell’esclusivo interesse dell’individuo e della collettività? La scarsa conoscenza del fenomeno appare in netta contraddizione rispetto all’enfasi posta sui presunti benefici dei fondi sanitari ed è segno di mancanza di trasparenza nella gestione degli stessi.

Anche i dati riferiti a singoli fondi (quando indagati in dettaglio) non riportano mai le informazioni utili a comprendere il costo effettivo dell’intermediazione, tema di fondamentale importanza per valutare i pro e i contro delle scelte a disposizione del consumatore. Quali sono i fattori che giustificano il comportamento degli italiani, poco inclini ad acquistare una copertura assicurativa o a partecipare a fondi sanitari? Il fenomeno appare in gran parte riconducibile alla particolare onerosità dei fondi stessi per il cittadino. Per almeno tre ragioni.

Primo, perché la maggior parte dei rischi, specialmente quelli più catastrofici per i bilanci delle famiglie, sono già tutelati all’interno del sistema pubblico. Secondo, perché le spese sostenute nel mercato privato delle prestazioni sanitarie godono di un regime fiscale agevolato che garantisce al cittadino un rimborso fino al 19% della spesa sopportata, agevolazione cui il cittadino deve rinunciare qualora decida di partecipare a fondi assicurativi o polizze di gruppo. E metà della spesa privata è già oggi oggetto di detrazione fiscale. Terzo, perché qualunque forma di intermediazione presenta costi di gestione molto elevati, che impongono il pagamento di un premio o di un contributo pari ad almeno 1,5 volte il valore dei sinistri coperti a causa delle sole spese amministrative e ben oltre 1,5 volte se si considerano anche le riserve e l’eventuale profitto.

La scarsa disponibilità dei cittadini a partecipare a ulteriori coperture appare pertanto razionale. In breve, l’idea che l’intermediazione finanziaria (e il welfare aziendale) siano una risposta alle difficoltà del nostro sistema di tutela della salute è illusoria e priva di fondamento quando giudicata dal punto di vista dei cittadini. Essa è la risposta alle difficoltà del mercato dell’intermediazione finanziario-assicurativa (alla continua ricerca di settori profittevoli) e a quelle del mercato dell’industria della salute (che mal sopporta le sforbiciate alla spesa sanitaria pubblica).

Nerina Dirindin è docente di Economia pubblica ed Economia sanitaria presso l’Università di Torino