Sembrerà strano, ma questa, che è una storia sull’uso e l’abuso dei voucher nel nostro Paese, comincia in un mercato di Mopti, in Mali, e per l’esattezza dietro un bancone del pesce. Toudo fa questo nella vita, vende pesce, e non lo pagano a voucher, ancora. Il banco è di suo padre, quindi quello che incassa, tolte le tasse che deve versare ai padroni del mercato, lo divide con lui.

Poi, un giorno, a pochi metri dal banco del pesce scoppia una bomba. Una bomba in mezzo al mercato, rivendicata dal movimento Ansar Dine, uno dei gruppi fondamentalisti islamici che tormentano il Paese. Ci sono morti, feriti, c’è il panico. Toudo sente che la sua vita è in pericolo e scappa, come farebbe chiunque.

La prima tappa è la vicina Algeria, ma lì non si può restare e allora il viaggio prosegue verso la Libia, che però, come sempre, è un inferno per quelli come lui. Un giorno nel quartiere di Tripoli dove Toudo si è rifugiato arriva un camion della spazzatura, scendono uomini armati, sono paramilitari. Con i fucili puntati caricano lui e altri 300, come sacchi dell’immondizia, e li portano in prigione. Per uscire, dopo una settimana di bastonate e angherie, bisogna pagare circa 350 euro, che per chi arriva dal Mali o dal Gambia sono tantissimi.

Ma di soldi ne serviranno ancora di più per imbarcarsi e scappare ancora, stavolta verso l’Europa. “La Libia – dice Toudo – è come un buco nella sabbia: entrare è facile, ma uscire è difficilissimo”. L’unico modo è pagare, stavolta 1.000 euro, i risparmi di una vita. Con quelli si può salire su una barca che potrebbe contenere al massimo 50 passeggeri, ma in realtà ce ne sono 109. Tutti uomini, con qualche bambino di 11-12 anni.

L’idea all’inizio era di arrivare in Francia, ma spesso i programmi che uno si dà si scontrano con la realtà delle cose e ora vivo e sto bene qui in Italia”, spiega Toudo, che dopo due anni di progetto Emergenza sbarchi e di Sprar (il sistema di protezione per i richiedenti asilo) da cinque mesi è in totale autonomia, vive in Umbria, in affitto con un amico (350 euro in due) e ha un permesso di protezione sussidiaria, che gli consente di lavorare.

Così, già durante il programma di assistenza, si è recato prima al Centro per l’impiego, poi in un’agenzia interinale, e ha anche fatto un corso per magazziniere e conseguito il patentino di mulettista. Insomma, non è stato con le mani in mano, ma l’unica proposta che ha ricevuto richiedeva un requisito per lui impossibile da soddisfare: essere automunito. Quindi, niente da fare.

Allora, da buon aspirante italiano, si è affidato alle relazioni personali e qualcosa ha trovato. Lavoretti, di giardinaggio, potature o cose simili, per conto di un italiano che lo pagava a fine giornata, naturalmente in nero, 30 euro per otto ore di lavoro. Poi la seconda esperienza e la scoperta dei voucher: “Una coppia di italiani mi ha utilizzato per due mesi di raccolta delle olive – racconta Toudo –. Lavoravamo tutti i giorni quando non pioveva, otto ore al giorno. Alla fine ho messo in tasca 789 euro, dei quali 112 in voucher e il resto in nero”.

C’erano diversi africani a raccogliere le olive con Toudo, tutti pagati un po’ con i voucher e un po’ in nero. “In realtà – precisa lui – alcuni mie amici non li hanno pagati proprio e hanno dovuto chiamare i carabinieri per ottenere quanto gli spettava”. Agli occhi del giovane africano, probabilmente, lavoro nero e voucher non sono poi molto diversi: qualche centinaia di euro, utili a pagare l’affitto e qualcosa da mangiare. Ma l’obiettivo così non è raggiungibile: “Io vorrei costruirmi un futuro qui, perché mi trovo bene, ho imparato l’italiano, ho conosciuto persone in gamba. Per questo cerco un lavoro fisso, anche con uno stipendio basso, non importa. Però – conclude – vorrei poter sapere che alla fine del mese posso contare su qualcosa”.