Nel mese di novembre Confindustria ha coraggiosamente avviato una discussione con le associazioni sindacali e imprenditoriali sui temi della crescita e della competitività del paese. Tale discussione prescindeva almeno inizialmente da un confronto col governo. La cultura che orientava quel “tavolo” era più bilaterale che concertativa. In questo senso non erano pensabili accordi separati o forzature ma intese pienamente e generalmente condivise. Così sono stati sottoscritti importanti documenti sul Mezzogiorno, la ricerca e l’innovazione, le emergenze occupazionali, la semplificazione. Persino sulle politiche fiscali si è arrivati molto vicino a un accordo unitario.

Sembrava una nuova primavera per le relazioni sindacali. Poi le vicende Fiat hanno cambiato il quadro. L’accordo separato e la riduzione dei diritti di rappresentanza sul versante sindacale, l’uscita da Federmeccanica sul versante confindustriale, hanno spostato l’attenzione sul tema della democrazia e della rappresentanza. In questa nuova temperie il confronto bilaterale è stato surgelato e Confindustria si è dedicata soprattutto a gestire le proprie contraddizioni interne. I commentatori in queste settimane hanno giustamente insistito sulla rottura tra Cgil, Cisl e Uil e sulle diverse visioni del conflitto sindacale esistenti tra Cgil e Fiom.

Pochi hanno commentato il fatto che i comportamenti Fiat hanno messo oggettivamente in discussione il ruolo di rappresentante generale di Confindustria. In più Federmeccanica ha proposto un sistema contrattuale a geometria variabile su cui Confindustria è stata costretta a riallinearsi con qualche affanno, non avendo una propria proposta in campo. Le relazioni bilaterali si sono indebolite e Confindustria è tornata ad affidarsi passivamente alle decisioni del governo per far uscire il paese dalla crisi. Insomma, si percepisce una crescente difficoltà nella massima associazione imprenditoriale italiana a rappresentare il proprio universo di associati nei confronti delle organizzazioni sindacali e a svolgere le tradizionali funzioni di concertazione con il governo.

Non è bene nascondere le contraddizioni interne al mondo sindacale, ma esse sembrano lunghe code di una dialettica – tra un sindacato più contrattualista e un sindacato più politico, un sindacato più conflittuale e uno più collaborativo, un sindacato più o meno filogovernativo – che esistono da sempre. Le difficoltà di Confindustria sembrano (a me) più profonde e nuove. Da cosa dipendono queste difficoltà? Vi sono un problema antico e un malessere più recente alla base dell’incertezza confindustriale di cui tener conto. Il problema antico nasce con il sistema contrattuale contenuto nel Protocollo Ciampi del 1993. Come si ricorderà Confindustria faticò a sottoscrivere i due livelli contrattuali generali (nazionale e aziendale) per evidenti diversità di opinioni al proprio interno. Per semplificare si potrebbe dire che le grandi imprese non hanno mai considerato il Ccnl come un momento efficace di regolazione dei rapporti di lavoro, dandolo in qualche modo per scontato e generico; le imprese di minore dimensione non hanno mai accettato l’idea che ci fosse un livello contrattuale aziendale obbligatorio che si aggiungeva agli oneri del Ccnl.

Questo diverso approccio alla contrattazione è convissuto all’interno di Confindustria per quasi vent’anni senza mai produrre una sintesi convincente. Da qui l’idea dei due livelli contrattuali “disgiunti” e le assicurazioni di Confindustria che tutto rimarrà come prima. Ma questa è chiaramente una non soluzione. Il malessere recente dipende dall’intreccio tra crisi e globalizzazione dei mercati che molte imprese italiane stanno vivendo ciascuna per sé, senza una politica né generale, né settoriale di sostegno. Il combinarsi di crisi e globalizzazione fa sorgere un vecchio riflesso automatico nella nostra classe imprenditoriale che vede come unica strada per la sopravvivenza delle imprese quella di liberarsi da ogni tipo di vincolo contrattual-sindacale per poter competere con i paesi emergenti. Fino all’idea delle deroghe che svuota di senso qualsiasi contratto e fino alla proposta del modello fai da te di relazioni sindacali (attuato di recente da Fiat) secondo cui ciascuna impresa sceglie l’interlocutore sindacale più consono al suo progetto.

È evidente che se saltano le regole della rappresentanza e il sistema contrattuale, anche Confindustria smette di essere un supporto e diviene un vincolo per i propri associati, in quanto firmataria e garante di regole generali. Il fatto che Confindustria assecondi queste tendenze centrifughe non attenua la sua crisi di rappresentante generale di comparti e imprese. Per semplificare: se Confindustria intende continuare a rappresentare sindacalmente le imprese industriali italiane (fare accordi con i sindacati dei lavoratori e col governo), è necessario che torni a garantire regole al proprio interno e verso i propri interlocutori. Altrimenti il suo ruolo si trasforma da sindacale in qualcosa di diverso, più simile al lobbismo verso i poteri forti, come nella tradizione d’Oltreoceano, che non all’esperienza italiana degli ultimi trent’anni.

Naturalmente le regole contrattuali e di rappresentanza possono essere rinnovate per aumentarne l’efficacia e rispondere alle esigenze di un’economia più esposta. Ma rinunciare alle regole generali significa rinunciare al proprio ruolo, sia per i sindacati che per le associazioni imprenditoriali. Questa tendenza alla destrutturazione delle regole sarebbe meno pericolosa se non fosse sostenuta e alimentata dal disegno esplicito del governo, in particolare del ministro del Lavoro, di ridurre il peso delle rappresentanze sociali (in particolare i sindacati) a soggetti di uno schieramento filogovernativo o antagonista a priori, per scelte di campo che esulano dal merito delle questioni in discussione. Le difficoltà unitarie tra Cgil, Cisl e Uil sono amplificate da questa “pressione” a gravitare attorno al governo. Ma anche Confindustria è coinvolta in questo processo di omologazione politica dei corpi intermedi della società. Le sue dichiarazioni a settimane alterne a favore o contro il governo, sono il segno di questa pressione.