È passato ormai un mese dallo stop dell’altoforno. Un mese in cui su Piombino e i suoi stabilimenti si sono accesi i riflettori, dopo un lungo periodo di silenzio e indifferenza. Ma è stato anche un mese di rabbia, di polemiche, di sconforto e soprattutto di attesa. Dal 24 aprile l’Afo è stato caricato “in bianco”, cioè riempito di coke ma senza minerali, per mantenere alte temperature e permettere un’eventuale ripartenza. Questo in attesa del 18 giugno, termine ultimo in cui sarà possibile presentare le offerte vincolanti per l’acquisto.

Dopo l’uscita di scena, salvo sorprese dell’ultimo minuto, di Smc e del suo discusso manager, Khaled al Habahbeh, sono rimaste in corsa tre aziende. La più promettente è l’indiana Jindal South West dell’imprenditore Sajjan Jindal, uno dei maggiori gruppi siderurgici al mondo, che sarebbe interessata a costruire forni elettrici e un impianto Corex, già usato in due suoi siti; un’altra è la Jindal Steel Power, azienda di proprietà del fratello Naveen Jindal, che però sarebbe interessata solo ai forni elettrici e ai laminatoi; e infine l’ucraina Steel Mont, interessata solo ai laminatoi e al polo di Lecco. Gli interlocutori sembrano più affidabili, visto che alla metà di maggio è stato chiesto e ottenuto che il termine per la presentazione delle offerte fosse spostato al 18 giugno: tempo per studiare meglio la situazione e l’accordo di programma firmato all’indomani della fermata dell’altoforno.

Dopo lo stop dell’altoforno

Luciano Gabrielli, segretario provinciale della Fiom, definisce l’accordo di programma una tappa fondamentale per salvare lo stabilimento e renderlo più allettante per i possibili compratori. Nel programma c’è l’intenzione di continuare a produrre acciaio a Piombino, mantenendo l’area fusoria: è forse il punto più importante, su cui il governatore della Toscana Rossi ha dichiarato di giocarsi il mandato e la “testa”. Poi ribadisce l’importanza del nuovo bacino di carenaggio per la rottamazione delle navi e la necessità di formare il personale che ci lavorerà; formazione che servirà anche a tutti gli operai che nel periodo di ristrutturazione degli impianti saranno impiegati nelle bonifiche. Un passaggio importante perché riuscirà a dare fatturato alle imprese dell’indotto e pagare gli ammortizzatori sociali, che si attueranno con contratti di solidarietà e cassa integrazione ordinaria e poi straordinaria. Nei prossimi mesi queste imprese riceveranno sempre meno dalla Lucchini, passando dai 12 milioni di maggio ai 9 di giugno, 3 di luglio e così via, impoverendo i lavoratori e il territorio.

La commissione con il compito di attuare i vari punti, formata anche da rappresentanti locali e che vede in cabina di regia il governatore Rossi, ha dichiarato di voler stilare entro l’estate il cronoprogramma dei lavori, dando valide garanzie sulla loro attuabilità. Non sono pochi gli scettici, infatti, che hanno definito l’accordo di programma solo una dichiarazione di intenti: ma i 270 milioni stanziati da Regione e governo sembrano esserci, resta solo da vedere come saranno spesi. Attesa, dunque, nella speranza che il 18 giugno sia presentata quell’offerta vincolante che darà forma e sostanza al programma e al futuro di Piombino. Di fronte alla stop dell’altoforno si è scatenata una bufera di accuse e polemiche. Il primo a richiamare l’attenzione dei media sul caso Lucchini è stato il Papa, che sollecitato da un videomessaggio degli operai ha smosso le acque e fatto attivare la politica. Al pontefice, per il suo impegno, è stato poi donato un pezzo di rotaia prodotta a Piombino da una delegazione scesa a Roma per ringraziarlo.

È stata quindi la volta di Beppe Grillo: il comico e leader del M5S ha visitato Piombino il 26 aprile, tenendo un comizio presso la portineria dello stabilimento. Accolto da operai e cittadini, ha accusato i partiti locali, in primis il Pd, e i sindacati di aver ingannato e illuso la città con false speranze e annunci, da ultimo l’accordo di programma, definendoli come la “peste rossa”. Osservando poi che lo stop dell’altoforno si sarebbe dovuto realizzare già un anno fa, per non spendere soldi inutili, Grillo ha infine sostenuto la necessità di avvalersi dei fondi europei per la siderurgia, lasciati dalla Ceca, per risollevare le sorti del settore in Italia. Ipotesi prontamente smentita dall’ultimo presidente della Ceca Enrico Gibellieri, che ha dichiarato che quei soldi sono bloccati per usare gli interessi nella ricerca siderurgica. A polemizzare con Grillo anche Mirko Lami, operaio e Rsu Fiom. “È stata una polemica dannosa e inutile, per gli operai, e per me pure pericolosa. Dopo il mio intervento da Santoro sono stato sommerso da insulti e minacce, anche contro mio figlio, da parte di molti simpatizzanti del M5S e non. È un momento delicato, non è il caso di tirar fuori soluzioni irrealizzabili”.

“Io vivo la fabbrica tutti i giorni
– prosegue –: dentro vedo rabbia, delusione e sconforto. Già da tempo gli operai sapevano a cosa andavano incontro; avevamo lanciato l’allarme, ma ci ridevano dietro. Così abbiamo accumulato un grave ritardo. Prevedo che nel 2020 l’Europa ripartirà e la siderurgia sarà un settore centrale: non è un caso che la Germania stia rinnovando i propri impianti. Ma in Italia mancano una politica industriale e imprenditori coraggiosi, che credano in una siderurgia competitiva; mi pare puntino a salvare solo un piccolo mercato di nicchia”. “E che la direzione sia questa – aggiunge Lami – lo fanno intuire anche le parole di Antonio Gozzi,presidente di Federacciai. Per lui il Corex è solo una chimera e lo ha addirittura etichettato come intervento statale. Oltre alla malafede, ci sono tutti gli estremi per una denuncia per turbativa d’asta, visto che c’è sempre una gara in corso”. “In questo mese – conclude – sono state molte le delusioni. Ma un po’ di speranza la lascia la Concordia. Per quanto appaia sempre più lontana l’ipotesi di smantellarla qui da noi, il suo arrivo sarebbe il segnale di un cambio di rotta e della volontà di attuare finalmente politiche industriali che rispettino l’ambiente e il lavoro. Sappiamo bene quale è la realtà perché la viviamo tutti i giorni. Almeno questa speranza lasciatecela”.

Il motore pulito

Concretezza e credibilità sono i grandi assenti. Quando si parla dell’ex stabilimento Fiat di Termini Imerese, ormai, si pensa più ai passati tentativi, falliti, di rilancio che alla possibilità di quelli futuri di andare in porto. Anche perché pure questi sembrano essere deboli sotto il profilo finanziario e industriale. L’ultima polemica è affiorata la settimana scorsa, durante la campagna elettorale per il rinnovo dell’amministrazione cittadina: secondo il M5S, l’attuale giunta di centrosinistra ha messo in fuga la Disney, che avrebbe voluto realizzare un parco d’intrattenimento sull’isola proprio nell’area della fabbrica. Qualche settimana prima, invece, alla lista dei pretendenti si era aggiunto un gruppo di ex manager Alfa Romeo che vorrebbero realizzare una Lancia Y ibrida in grado di occupare il 50 per cento della forza lavoro ancora in organico (mille operai).

Intanto, sono trascorsi più di due anni dalla chiusura dell’impianto (31 dicembre 2011) e, in quel pezzo di
terra che sta tra Palermo e Cefalù, da allora è passata l’immagine plastica dell’Italia di oggi che, probabilmente, Dino Risi non esiterebbe a inserire in una attualizzazione della galleria dei suoi “mostri”: bancarottieri, furbetti, truffatori, barattieri e ladri, attratti dai 350 milioni di euro che Stato e Regione Sicilia offrirebbero in dote a quanti decidessero di garantire livelli occupazionali e produttivi nel cuore di quella che ancora oggi è, per dirla alla Gramsci, la “quistione meridionale”.

“Da Gian Mario Rossignolo a Massimo Di Risio – racconta Maurizio Calà, segretario generale della Cgil di Palermo – sono sbarcati sull’isola persone che si sono presentate come salvatori della patria in grado di sostituire Fiat nella gestione della fabbrica. Purtroppo le cose sono andate diversamente. Oggi sarebbe auspicabile che nello stabilimento venissero prodotte auto realizzate da grandi gruppi come Toyota oppure Mitsubishi. Ma per attrarre gli investimenti di queste multinazionali sono necessarie scelte chiare delle istituzioni. E purtroppo, finora, Rosario Crocetta non ha mostrato grande lungimiranza”. Basti pensare che in un’area a economia depressa come questa, Fincantieri è pronta a investire 30 milioni di euro per ampliare il porto di Palermo, ma la Regione ormai da mesi non sblocca il proprio finanziamento di 50 milioni di euro destinato a questa importante opera infrastrutturale, nonostante gli accordi sindacali a riguardo siano già sottoscritti da tempo e i progetti siano nero su bianco a impolverarsi su una scrivania.

Comunque, per quanto riguarda lo stabilimento di Termini Imerese, oltre all’inerzia della pubblica amministrazione, c’è un altro problema da sciogliere non di poco conto: la proprietà dell’impianto è ancora del neonato gruppo italoamericano, che difficilmente cederebbe a titolo gratuito una propria fabbrica ai diretti concorrenti, rompendo così quel monopolio nella produzione delle auto in Italia che di fatto ha rappresentato la fortuna del gruppo Fiat. “Anche per questa ragione – spiega Roberto Mastrosimone, segretario generale della Fiom siciliana – la nascente cordata di ex dirigenti Fiat potrebbe facilitare la ripartenza dell’azienda. Sono persone che provengono da quell’ambiente e che indirettamente avrebbero l’appoggio della vecchia proprietà. Insomma, sembra essere una delle strade più ragionevoli in grado di evitare che il 31 dicembre prossimo più di mille persone vengano licenziate. La Fiom auspica che in quell’impianto si continuino a produrre auto, ma se così non fosse siamo pronti a valutare anche altre ipotesi, purché si concretizzino nel più breve tempo possibile”.

Se un rilancio “senza Fca ma con Fca” potrebbe essere una soluzione, tutta l’industria dell’isola sembra impegnata in una corsa contro il tempo: l’abbandono dell’Ansaldo Breda, la crisi della chimica, le potenzialità inespresse dell’Etna Valley, la scarsa valorizzazione del settore agroalimentare stanno accelerando un processo di desertificazione che sta generando nuove ondate migratorie. Per il segretario Calà “la Sicilia rischia di perdere di nuovo una generazione importante. I principali attori sociali dovrebbero capire che l’industria cinematografica, teatrale e artisticoculturale, l’industria del turismo, la trasformazione dei prodotti ittici e agricoli, insieme al rilancio della manifattura tradizionale e all’apertura dei confini a nuovi grandi gruppi interessati a produrre auto, sono l’unica via d’uscita da una situazione così drammatica”.

Aprire a nuovi gruppi potrebbe voler dire anche provare a vincere una sfida, là dove Fiat in trent’anni ha fallito: la nascita di un indotto. Della filiera dell’auto ci sono solo quattro piccole aziende, per il resto la fabbrica di Termini Imerese è stata sempre considerata un mercato di sbocco per le produzioni della componentistica del nord Italia. Una stortura del mercato che ha reso diseconomico produrre auto in Sicilia. Ora l’opportunità che si profila potrebbe consistere addirittura nella produzione di un motore “pulito”. Sullo sfondo di un’isola alla ricerca della sua identità perduta, resta una delle più grandi questioni odierne: i flussi migratori che dalle coste mediterranee dell’Africa giungono sulla frontiera italiana dell’Unione europea. “Anche affrontare in modo serio questo tema – conclude il segretario della Cgil di Palermo – potrebbe rappresentare un’ulteriore occasione di crescita e sviluppo per l’isola. Fare della Sicilia un centro di formazione internazionale d’eccellenza nel settore della cooperazione allo sviluppo, investire per la realizzazione di strutturare di prima accoglienza adeguate, impegnare risorse in sistemi d’avanguardia per il controllo dei mari e delle coste sono voci di spesa che si dovrebbero inserire in un progetto europeo di ampia scala. Quando l’Europa del nord inizierà a vedere il Mediterraneo come luogo strategico di scambio e di solidarietà, allora la Sicilia potrà avere un ruolo di grande protagonista su temi del genere”.

Se ciò accadrà lo scopriremo presto, ma intanto una cosa è certa: Termini Imerese non deve morire. E se oggi è il disincanto a farla da padrone, presto dovrà essere sostituito dal desiderio di veder rinascere un’azienda che negli ultimi trent’anni ha rappresentato la speranza di una vita migliore per migliaia di persone.