L’Italia è un paese in cui il desiderio è morto. Non si cerca, spera e agogna più. Tutto sembra fermo in un grigiore in cui chi ha qualcosa se lo tiene ben stretto e occhieggia intorno sospettoso. Chiosando un po’, è questo il succo dell’ultimo rapporto del Censis sullo stato del paese. In un’intervista di qualche settimana fa il presidente Giuseppe De Rita, con una delle sue provocazioni molto intelligenti, al giornalista che gli chiedeva di spiegare perché secondo lui i consumi ristagnavano, rispondeva più o meno così: Sì, c’entrerà pure la crisi, ma a me pare che nei paesi occidentali si consumi di meno perché ormai sul mercato c’è ben poco che possa accendere i nostri desideri di compratori, nulla che fa più la differenza, come poteva essere qualche decennio fa l’acquisto di un’automobile.

E allora? A me pare che le “rivolte” giovanili di questi mesi – dall’Europa consumistica al Nordafrica in fermento – ci dicono che il desiderio non è morto, ma che in alcune porzioni della società si stia ricollocando su altri segmenti. Istruzione, futuro dignitoso per sé e per gli altri, cultura, conoscenza, giustizia, libertà (non solo nella Tunisia di Ben Ali, ma anche nell’Italia di Berlusconi) possiedono almeno due tratti in comune. Sono immateriali e hanno un’insostituibile dimensione collettiva: conoscenza, cultura, libertà non sono come una tv al plasma; giovano al singolo solo se vivono in un contesto sociale in cui ne godono il maggior numero di persone possibili.
Si può dire allora che in una società satura di merci il desiderio – tradizionalmente considerato come una pulsione individuale – potrebbe tornare a vivere in una dimensione comune? Forse sì: ed è proprio se sapranno scoprire fino in fondo la propria dimensione collettiva che le proteste dei giovani di questi mesi potranno sedimentare il loro futuro.