Nel mondo (dati Ilo)
Nel mondo circa 200 milioni di minori lavorano, spesso a tempo pieno, e sono privati di un’educazione adeguata, una buona salute e del rispetto dei diritti umani fondamentali. Di questi, circa 126 milioni — ovvero 1 ogni 12 bambini al mondo — sono esposti a forme di lavoro particolarmente rischiose, che mettono in pericolo il loro benessere fisico, mentale e morale. Inoltre circa otto milioni di minori sono sottoposti alle peggiori forme di lavoro minorile: la schiavitù, il lavoro forzato, lo sfruttamento nel commercio sessuale, nel traffico di stupefacenti e l’arruolamento come bambini soldato in milizie.

Negli ultimi 15 anni il mondo ha preso consapevolezza che il lavoro minorile è un pressante problema economico, sociale e umano. Oggi il fenomeno sta diminuendo in tutto il mondo e, se questa tendenza continuerà, le peggiori forme potrebbero essere eliminate entro i prossimi dieci anni. Questo è il risultato diretto di un grande movimento internazionale impegnato contro il lavoro minorile. I risultati sono evidenti nel numero di paesi che ratificano la Convenzione n. 182 dell’ILO sulle peggiori forme di lavoro minorile. Adottata nel 1999, la Convenzione è stata ratificata dalla quasi totalità degli Stati membri.

Analogamente la Convenzione n. 138 dell’ILO sull’età minima, adottata nel 1973, è già stata ratificata dall’80 per cento degli Stati membri. L’ILO è stato uno dei principali promotori del movimento mondiale contro il lavoro minorile: il suo Programma per l’eliminazione del lavoro minorile (IPEC), lanciato nel 1992, è presente in oltre 80 paesi. Come per altri aspetti riguardanti il lavoro dignitoso, l’eliminazione del lavoro minorile è un problema sia di diritti umani che di progresso; la politica ed i programmi dell’ILO hanno come obiettivo quello di garantire ai minori l’educazione e la formazione di cui necessitano per crescere e lavorare da adulti in condizioni dignitose.

La povertà minorile in Europa (dal Rapporto sui diritti globali 2015)
I dati europei sulla povertà minorile continuano a creare allarme e a rappresentare una pesante ipoteca sul futuro, se si pensa a come in molti Paesi il disagio delle famiglie più povere risulti stabile e continuativo nel tempo, con una bassa mobilità sociale. La povertà dei più piccoli è indicativa, secondo Chiara Saraceno, più di altre variabili, dei limiti dei nostri sistemi sociali e della loro capacità di promuovere giustizia sociale: «In Paesi, tra cui ancora l’Italia, in cui vi è anche una forte concentrazione territoriale della povertà, la combinazione tra origine familiare e contesto di residenza determina le condizioni di vita molto più di quanto sia attribuibile alle caratteristiche e ai comportamenti individuali, ridimensionando l’immagine di società aperta e democratica, ove le opportunità sono egualmente distribuite e il merito individuale premiato». Insomma, la retorica liberista del merito e del rischio individuale è minata dal dato crudo della povertà dei bambini e dalle sue dinamiche (Saraceno, 2015).

Se il rischio povertà e deprivazione registra una media UE28 del 24,5%, per i minorenni la percentuale è del 27,6 (25% in area euro), a fronte di un 18,3% per gli over65. Si tratta di circa 27 milioni, +1 milione tra il 2008 e il 2012, arco di tempo in cui la percentuale sale dal 26,5% al 28%, la correlazione con l’andamento della crisi è evidenziata da tutti i ricercatori, con picchi in Grecia, Bulgaria, Irlanda, Ungheria (Save the Children, 2014). Osserva Eurostat che i minori sono a serio rischio povertà in almeno 20 Paesi membri, e che si arriva a una percentuale del 51,5% in Bulgaria, 48,5% in Romania, 43% in Ungheria, 38,1% in Grecia e 32,6% nel Regno Unito. Le variabili che influiscono su queste povertà sono «le difficoltà occupazionali dei genitori, correlate al livello di istruzione, la numerosità del nucleo familiare, e l’efficacia o meno degli interventi di welfare» (Eurostat, 2015 a). Variabili quali avere un solo genitore, essere rom o avere un genitore straniero aumentano il rischio povertà, in quest’ultimo caso quasi lo raddoppiano, 32,2% contro il 18,3% dei nativi. E non mette al riparo bambini e ragazzi il fatto che almeno un adulto in famiglia abbia una occupazione: la maggior parte dei minori poveri europei hanno almeno un genitore che lavora; Save the Children, nel suo Rapporto 2014 sulla povertà in Europa, sottolinea come avere un genitore con una intensità di lavoro bassa aumenti del 57% la probabilità di essere un bambino povero. Le povertà dei minori non sono, però, solo economiche: esistono deprivazioni nella qualità della vita che riguardano alcuni beni e risorse – dall’accesso a Internet ai libri, dall’aver un posto per studiare alla qualità dell’abitazione, dall’insufficienza dei pasti alle relazioni sociali – messi a punto da enti diversi, quali UNICEF e la stessa Eurostat, il cui andamento rivela come, tra il 2005 e il 2008, vi fosse un trend in cauto ma chiaro miglioramento, mentre già i dati tra il 2008 e il 2009, nel decollo della grande crisi, mostravano un’inversione negativa della tendenza (Saraceno, 2015).

La povertà minorile in Italia (dal Rapporto sui diritti globali 2015)
Nella graduatoria della povertà ed esclusione l’Italia si colloca ben sopra la media comunitaria, con 31,9% a fronte del 29,4% della popolazione generale adulta e del 22,6% degli over65. I dati nazionali ISTAT disaggregati per età mostrano per gli under18 un valore della povertà assoluta quasi doppio rispetto alla popolazione generale (10% contro il 5,7%), unico valore a essere aumentato tra il 2013 e il 2014 (+0,1%), e per la povertà relativa si arriva al 19% (il 10,3% per la popolazione generale) e anche qui è la sola classe di età che ha visto un aumento nell’ultimo anno (+1,5%) (ISTAT, 2015 a). Secondo dati OCSE, i minori italiani hanno una più alta incidenza di povertà rispetto alla media dei Paesi OCSE (17% contro 13%), così come i giovani nella fascia 18-25anni (14,7% rispetto al 13,8%). Di contro, gli over65 hanno un tasso di povertà più basso (9,3% rispetto a 12,6%) (OCSE, 2015).

Il CENSIS sottolinea la fragilità non dei minori ma dei giovani, gli under34, riconducendola tanto ai fattori legati al mercato del lavoro – tra il 2004 e il 2012 il loro tasso di occupazione è sceso dal 60,5% al 48% ed è aumentato il lavoro “basso” e a bassa intensità – quanto alle crescenti difficoltà di accesso al welfare: il 40,2% di loro dichiara che nell’ultimo anno alcune prestazioni sociali prima gratuite hanno implicato un contributo, il 57,5% che alcuni contributi già previsti sono aumentati (CENSIS, 2014).