Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n.2 2016 de La Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista

I sistemi di protezione sanitaria nascono in Europa su base corporativa: fu la carneficina della seconda guerra mondiale a spingere la Gran Bretagna verso l’universalismo. I tre principi a cui si ispira sono la gratuità e l’uniformità territoriale e la risposta a tutti i bisogni di cura dei cittadini. L’Italia ha introdotto il sistema sanitario nazionale nel 1975, ma ancora oggi non risponde pienamente a nessuno dei tre criteri, non coprendo tutti i bisogni dei cittadini, lasciando al pagamento in proprio o al pagamento parziale del cittadino una parte del suo bisogno e non avendo una copertura uniforme sul territorio italiano.

Eppure l’universalità ha un grande valore democratico, perché trasforma un servizio in un diritto. Secondo l’Oms solo il 20% della popolazione mondiale è servita da sistemi universali, mentre ogni anno 150 milioni di persone subiscono catastrofi economiche o serio impoverimento per pagare spese sanitarie impreviste. La riforma sanitaria dell’amministrazione Obama è stata concepita per ridurre questa aleatorietà pur non abbracciando il principio universalistico.

Secondo l’Oms questo universalismo è molto minacciato quando la spesa out of poket, cioè quella privata non assicurativa, supera il 20% del totale. L’Italia ha una spesa privata fatturata del 22% e all’interno di questa la spesa out pocket è dell’87%, la percentuale maggiore tra i Paesi europei simili. Se poi si considerasse anche il pagamento a nero la soglia del 20% verrebbe probabilmente superata.

Dal dopoguerra le due colonne dell’universalismo di Beveridge, il sistema sanitario e quello previdenziale, hanno manifestato una crescita dei costi superiore alla crescita del reddito nazione e perciò si ipotizza che in futuro l’universalità del servizio non potrà essere sostenuta. Questa crescita è dovuta a diversi fattori. Per cominciare, nell’ambito di tutti i servizi di cura l’offerta di un buon servizio tende a generare la richiesta da parte dei cittadini-elettori di un servizio migliore in un tempo successivo. R. Levaggi e G. Turatti la chiamano “sindrome di Sisifo”. Altri fattori sono più specifici. “I determinanti della spesa sanitaria pubblica sono demografici e non demografici. Quelli demografici si riferiscono in generale alla struttura per età della popolazione e l’evoluzione del suo stato di salute, mentre un driver non demografico è il reddito. Il progresso tecnologico, i prezzi relativi, le politiche e le istituzioni sanitarie sono i candidati più probabili per spiegare la parte rimanente”.

Su un incremento annuo della spesa sanitaria nei paesi Ocse del 4,3%, l’Ocse stesso stima che l’effetto demografico abbia inciso per uno 0,5% all’anno. L’effetto crescita del reddito può essere stimato tra l’1,8 e 2,2% all’anno, mentre il resto dipende dagli altri fattori. Altri studi confermano cifre del tutto analoghe. Per l’Italia la crescita è stata del 3,1%, con una stima di effetto invecchiamento dello 0,6% e solo uno 0,4% di effetto reddito dovuto alla bassa crescita economica. Nel nostro Paese la spesa sanitaria è diminuita dal 2011 al 2015 per effetto di tagli alla spesa pubblica e della minore propensione alla spesa delle famiglie dovuta alla crisi. Si tratta però, come direbbe Ivan Cavicchi (2016, “La Quarta Riforma”, Quotidiano Sanità), di risparmi a invarianza di sistema e perciò a compressione delle spese.

Questa invarianza fino a oggi ha determinato costi crescenti dovuti alle tecnologie e agli eccessi nelle terapie. Vi sono però molti fattori assistenziali, tecnologici e organizzativi che, come denuncia lo stesso Cavicchi, potrebbero essere rivoluzionati per portare l’attuale sistema di cura taylorista verso un sistema sanitario a rete, orientato al benessere del paziente, che è la condizione preliminare della buona salute. Non sono tanto i costi dovuti all’allungamento della vita individuale a doverci impensierire. Come spiega Michele Raitano (2006, “The impact of death-related cost on health care expenditures”, Enepri Research Report), i costi sanitari sono concentrati negli ultimi anni di vita e se la vita si allunga non aumenta il numero di questi anni critici. Cresce però l’aspettativa di una maggiore qualità della vita senile.

Il maggior driver di crescita dei costi è l’incremento progressivo della quota di anziani sul totale della popolazione. Questa quota è più che raddoppiata negli ultimi 50 anni. In particolare, è la percentuale di persone non più ufficialmente produttive che risultano a carico del sistema previdenziale e sanitario a rendere difficile la sostenibilità nel futuro. L’immigrazione non sembra sufficiente a sconfiggere la bassa natalità italiana e ragioni di sostenibilità sociale sconsigliano di alimentarla come fosse una terapia demografica. Però l’Italia ha il vantaggio di un sistema sanitario tra i meno costosi d’Europa in percentuale del reddito e di un tasso di partecipazione al lavoro tra i più bassi. Abbiamo ampi margini di miglioramento. Il tasso di mancata partecipazione al lavoro passa dal 13,4% del Nord al 37,9% del Sud e il fenomeno colpisce assai più le donne che gli uomini. Se non riusciamo a creare più lavoro regolare nel Sud, e specialmente per i giovani e le donne, e ad adottare politiche di conciliazione tra lavoro ed età senile, che potrebbero portare un passaggio più graduale dal lavoro al non lavoro, il sistema sanitario non potrà essere sostenuto. Esiste, come sappiamo, anche un grande problema di evasione fiscale e contributiva, la cui soluzione potrebbe consentire il temperamento del principio di universalità con quote di copayment riservate alle fasce davvero più abbienti.

Nicola Giannelli è ricercatore di Scienza politica e docente di Scienza dell’amministrazione e di Politiche del welfare nell’Università di Urbino Carlo Bo