Essere o non essere. Il dilemma shakespeariano viene gridato sempre più forte dagli attori della scena politica europea. Dopo la vicenda greca (mai risolta) e la Brexit, anche la cancelliera tedesca Angela Merkel qualche settimana fa ha alluso a un’eurozona a due velocità (anche se il primo tedesco a rompere il tabù fu il ministro delle Finanze Schauble già nel 2015 in occasione della crisi ellenica). E, in effetti, proprio a 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma, tutta la discussione sembra aver preso la piega di un’Europa a più velocità, pur di scongiurarne la frattura.

D’altra parte, la forma più frequente con cui il dibattito di questi anni sull’uscita dall’euro viene intrapreso è quella della previsione dei costi e dei benefici economici dei possibili scenari futuri. Recentemente, anche le istituzioni hanno partecipato al dibattito (basti citare i cinque scenari del Libro bianco della Commissione europea sul futuro dell’Ue-27 o le ipotesi di Mediobanca sugli effetti dell’uscita dell’Italia dall’euro). Il problema di fondo di questa discussione, però, è che viene estremizzata tra due fuochi: da un lato, la possibile inerzia delle politiche attuali predicata dagli eurottimisti (o eurottusi), esponenti liberisti e tecnocratici, fautori dell’euroausterità (si vedano le Raccomandazioni del “Gruppo ad alto livello sulle risorse proprie dell’Ue” capitanato da Monti); dall’altro lato, la distruzione della moneta unica e la deflagrazione del sogno europeo auspicata dagli euroscettici (o euroscocciati), ovvero dai partiti più nazionalisti (a cominciare dal Front National di Marine Le Pen), che, in assenza di alternative più keynesiane e democratiche, raccolgono la protesta proveniente dal disagio economico e sociale dei popoli europei. Ma la verità, come spesso accade, sta nel mezzo.

Per definizione, l'analisi “per estremi” trascura gli scenari più plausibili, che nella vicenda europea sono proprio quelli più probabili. Innanzitutto, appare del tutto irrealistica l'ipotesi sottesa che all’uscita unilaterale di un Paese, come la Francia o l’Italia, corrisponda la persistenza dell’area euro a 18 e un nuovo assetto istituzionale che mantenga il mercato unico (peraltro mai completato), senza generare ulteriori squilibri macroeconomici, interni ed esterni, all’Europa. Di fronte alla rottura dell’Euro(pa), è molto più probabile una nuova competizione internazionale, fondata sulla svalutazione delle diverse valute europee, per la conquista delle quote di commercio internazionale, per la capacità fiscale di attrazione dei capitali e per l’accreditamento sui mercati finanziari. L'effetto contagio sull’intero sistema bancario europeo sarebbe inevitabile, tanto quanto l’uscita sequenziale e disordinata di altri Paesi europei, a partire da quelli più esposti e periferici. La stessa reintroduzione delle monete nazionali comporterebbe numerose difficoltà tecniche e tempi molto lunghi, a partire da quelli di negoziazione.

Semmai, poi, il ritorno alle monete nazionali per i Paesi euro possa tradursi nel breve periodo in un sostegno alla ripresa economica e nel rafforzamento della sovranità nazionale (tutto da dimostrare, visto il crollo della sterlina), nel medio e lungo termine nessuna delle cause che hanno originato la crisi verrebbe risolta. In un contesto ancora meno cooperativo, gli squilibri macroeconomici europei – dirimenti anche per quelli globali – insisterebbero sul versante della domanda (compressione della quota del lavoro sul reddito nazionale, riduzione del welfare e della progressività fiscale, precarizzazione del lavoro ecc.), come dell’offerta (finanziarizzazione, riduzione degli investimenti fissi reali e dell'innovazione ecc.).

La questione dovrebbe essere affrontata da un punto di vista più politico, anche per capire meglio alcuni passaggi storici e l'attuale geografia economica dell'Europa. La prima e più importante motivazione alla base della costruzione europea è il progetto di pace che si è voluto recuperare all'indomani della seconda Guerra mondiale, cercando di ritrovare lo spirito della “pace perpetua” di Kant, a cui si richiama anche l'idea di “Stati uniti d'Europa” di Hugo (soprattutto oggi che gli Usa di Trump rimettono in discussione la Nato). La proposta di Schuman di istituire la Ceca portava con sé interessi pratici e valore simbolico. Per la prima volta dopo lo sconvolgimento dei conflitti mondiali, i rapporti bilaterali lasciarono il posto alla prolifica logica multilaterale, anche oltre i confini europei.

Su questa base, la cooperazione internazionale, ispirata dagli accordi di Bretton Woods ha dato il via a una serie di successivi strumenti di collaborazione sovranazionale. Il Gatt e la Cee sono alcuni tra i Trattati multilaterali che hanno allargato il commercio globale e, a loro volta, ispirato organizzazioni economiche e politiche nuove come il Mercosur, l’Asean e la stessa Unione europea. Anche per questo l’Ue, dopo il 1989, incoraggiò la riunificazione della Germania e, su spinta marcatamente francese, l'introduzione di un sistema monetario unico, ancor più necessario con l'ulteriore – e, forse, prematuro – allargamento a Est. Col senno di poi, dinnanzi alle sfide della globalizzazione, costituire una politica economica comune, un modello sociale comune e una difesa comune rappresentano obiettivi molto pragmatici.

Un’altra considerazione che induce a privilegiare il piano politico riguarda le scelte fiscali e finanziarie intraprese per affrontare l'irruzione della crisi globale nei bastioni dell'economia europea. Non era immaginabile che le modifiche dei Trattati avviate dal 2002, ancorché intellegibili nella logica liberista, potessero subire una così drastica accelerazione rigorista a partire dal 2009, con la giustificazione – e mistificazione – di poter far fronte alla crisi esclusivamente per quella via. Nessun economista ha previsto l'intensità e la profondità della crisi europea, perché nessuno poteva prevedere l’austerità. La teoria della cosiddetta “austerità espansiva”, ben sintetizzata dall'introduzione del pareggio in bilancio (anche in molte Costituzioni), è la vera responsabile della spirale recessiva, depressiva e deflattiva in cui ancora si trovano i Paesi periferici dell’area euro.

E se allo scoppio della crisi fossero state fatte altre scelte, oggi le pulsioni anti-europee sarebbero altrettanto forti? Se dal 2011 in poi, anziché Six pack, Two pack e Fiscal Compact, fosse stato deciso da subito un allentamento dei vincoli di finanza pubblica (una specie di “Whatever it takes” fiscale)? Se la Bce avesse deciso già nel 2010 il primo Quantitative Easing (anziché aumentare i tassi, mentre tutto il mondo li tagliava)? E se si fossero impiegate le risorse (a oggi mille miliardi di euro) per realizzare investimenti pubblici europei e non per salvare le banche e il sistema finanziario, come sarebbe lo scenario attuale? Il problema è politico. Tanto più quest’anno, in cui il Fiscal Compact deve essere ratificato nei Trattati per continuare a esistere, altrimenti decade. Un’occasione da non mancare.

Di certo, le vicende e le scelte di politica economica, finanziaria e monetaria dell'Unione si sono radicate nelle debolezze dell’architettura e della governance dell'area euro, ma è stata la politica liberista, prevalente tanto nei Parlamenti nazionali che nel Parlamento europeo, nella Commissione europea e nella Bce, a privilegiare gli interessi costituiti del capitale, soprattutto finanziario e delle grandi imprese esportatrici, a scapito dell'occupazione e dello sviluppo della stragrande maggioranza dei Paesi europei. L'analisi dei cosiddetti rapporti di forza intra, inter e persino extra europei induce a pensare che per l'Italia o per gli altri principali Paesi dell’Ue sia più semplice provare a cambiare la politica economica europea – strada ancora di fatto mai tentata – piuttosto che scegliere di uscire (in modo più o meno concordato) dall’euro.

D'altra parte, a rigor di logica, la proposta di una soluzione tecnica per via politica, come l'uscita dalla moneta unica, andrebbe comunque presa in considerazione solo dopo che la stessa forza politica – ammesso che si riesca a maturare – venga usata per compiere scelte di cambiamento della politica economica, della governance e della stessa architettura europea. Bisogna battersi per non disperdere e, anzi, per valorizzare quegli elementi comuni di avanzamento culturale, sociale, democratico e istituzionale che custodisce la storia europea. La domanda giusta, allora, non è se esistere o meno, ma se desistere oppure no.

Riccardo Sanna è coordinatore dell’area Politiche di sviluppo Cgil nazionale