Il 25 aprile del 1945 fu il giorno della liberazione di Torino e Milano, che il centro e il sud erano già stati liberati, ed è per questo che è giornata di festa nazionale, giornata da segnare, da celebrare per ricordare l'oppressione della dittatura, il male della guerra e la resistenza, la lotta condotta da uomini e donne per la libertà di tutti noi. Oggi siamo in treno, in bus, sulla metro, giochiamo con i nostri tablet o gli smartphone, andiamo su internet e poi corriamo, telefoniamo, pensiamo a cosa faremo domani che magari i negozi sono aperti e anche se piove e non possiamo andare a fare la solita scampagnata con gli amici, però si può andare a fare shopping o anche solo la spesa alla Coop così poi siamo più liberi, appunto.

Ed ecco che così, anno dopo anno, ce lo siamo dimenticato cos'è questo 25 aprile e pure la Liberazione che qualcuno - nonostante i capelli bianchi -, ha scambiato con la liberalizzazione. Sì, c'hanno raccontato che c'era la guerra e che c'erano persone, uomini e donne, che si nascondevano sui monti, negli anfratti, che rivendicavano la libertà dalla dittatura, dal pensiero unico e dalle discriminazioni. Quelle stesse persone, uomini e donne, diverse, così diverse che c'erano i contadini tra di loro e gli operai, e poi gli intellettuali e i giovani che studiavano. Gente che su quei monti e tra quegli anfratti si mescolò, si miscelò, i cattolici con i laici, i comunisti, i socialisti con i democristiani e i liberali e poi c'erano pure gli azionisti, come Calamandrei. Persone che poi si ritrovarono a sedere nei banchi della Costituente per mettere nero su bianco i pensieri e i valori maturati resistendo, tra quei monti e quegli anfratti.

Il 25 aprile dovremmo fermarci tutti per ricordarlo il significato di questa giornata e ringraziare gli uomini e le donne che con la loro vita e la loro forza ci hanno permesso di poter stare su un autobus, su un treno e anche sulla metro a giocare col tablet, con lo smartphone e navigare su internet senza censure, liberamente, indossando i jeans scoloriti oppure i tailleur, col ciuffo rosa o la barba lunga, così, solo perché ci va. E che poi al primo punto, al primo articolo di quella Carta fondamentale, c'hanno scritto che l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Con tutti i limiti, le sconfitte e i drammi che oggi dietro quella parola, lavoro, si sovrappongono ma che non devono impedirci di difenderla, aggiornarla, e declinarla secondo la tecnologia, i cambiamenti e i tempi di questo 2014.

Il sindacato, la Cgil, che proprio nei prossimi giorni andrà al suo XVII congresso nazionale, da anni cerca nuove declinazioni per rappresentare e difendere il nuovo lavoro con tutti i cambiamenti che rendono sempre più complicato fare sindacato e tutelare chi lavora o vuole lavorare. Ci sta riuscendo? Va nella giusta direzione? Ha adottato vent'anni fa una norma contro le discriminazioni di genere nei luoghi decisionali, ha imposto i giovani in quegli stessi luoghi, li ha sostenuti nelle battaglie contro la precarizzazione anche con strategie innovative, ha dato loro voce e li ha coinvolti. La Cgil prova, resiste, si mescola, resta uguale - la più grande organizzazione di rappresentanza di lavoratori nel nostro paese - e però cambia.

Ora lo sappiamo che sa tanto di retorica, ma questa parte del discorso che Piero Calamandrei tenne nel 1955 all'Università di Milano parlando della Costituzione ci sta proprio tutta il 25 aprile così ve la riportiamo. “Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione”.