Trent’anni fa, la mattina del 30 aprile 1982, veniva ucciso a Palermo Pio La Torre, segretario regionale del Pci siciliano: l’uomo che, con la proposta di legge sul reato di associazione di tipo mafioso e la confisca dei patrimoni illeciti – quella che sarebbe diventata poi la Rognoni-La Torre –, contribuì in maniera determinante a modificare il quadro della lotta alle cosche. Un merito che in questi giorni, ritornando su quel tragico evento – in cui trovò la morte anche il suo autista, Rosario Di Salvo –, è stato a più riprese ricordato, sottolineando insieme i danni provocati, in tema di confische, dal cosiddetto Codice antimafia fatto approvare da un Alfano ancora ministro di sua emittenza. La vicenda umana e politica di La Torre è fortemente intrecciata a quella dell’amico, compagno di partito, e conterraneo, Emanuele Macaluso. Abbiamo chiesto appunto all’ex dirigente comunista di ricordarne la figura.

“Pio? Aveva una dote politica straordinaria – ci dice subito il nostro interlocutore –: sapeva organizzare i movimenti. Era la sua grande qualità, decisiva in un partito di massa. La politica senza partecipazione, e senza l’organizzazione della stessa, è nulla: un insegnamento che oggi andrebbe tenuto presente. Così come nessun effetto ha, la lotta alla mafia, senza l’organizzazione continua, costante, di movimenti che si battono per la realizzazione di concreti obiettivi sociali”.

“Ci conoscemmo nel ’47 a Caltanissetta, la mia città, durante il congresso regionale della Cgil, c’era anche Di Vittorio. Eravamo giovani, io sono del ’24 lui era del ’27, dirigevo la Camera del lavoro nissena, e Pio partecipava al congresso come membro della delegazione di Palermo: un ragazzo alto, allampanato, gli occhi azzurri, la pelle olivastra, che veniva da una famiglia contadina, molto povera, delle borgate di Palermo. Venni eletto segretario generale della Cgil Sicilia, incarico ricoperto sino al ’56, mi trasferii a Palermo e lì lo conobbi meglio”.

“Il lavoro comune? Già nel ’49, con la ripresa delle lotte contadine. Andammo nel Corleonese, io proprio a Corleone, e La Torre, che era passato al partito, a Bisacquino. Qui, durante l'occupazione delle terre, ci fu uno scontro con la polizia. Pio venne arrestato insieme a un gruppo di contadini perché un commissario, testimoniando il falso, sostenne che lui gli aveva dato una bastonata. Si fece sedici mesi all’Ucciardone. Uscì dal carcere nel ’51 e tornò al partito. Gli chiesi di venire alla Camera del lavoro, di cui nel ’53 divenne segretario generale. Nel 1956 andai al Pci e lui prese il mio posto di segretario regionale della Cgil. È, questo, il momento in cui La Torre si afferma non solo come dirigente sindacale ma anche come dirigente politico. Ha un fortissimo legame con la città, è consigliere comunale, s’impegna nelle lotte per la casa e il risanamento di Palermo”.

In una Sicilia che sta rapidamente cambiando – il feudo ormai non c’è più, si è conclusa anche la stagione delle lotte contadine –, alla fine del decennio, anno 1958, entra in crisi il vecchio quadro politico: è l’“operazione Milazzo”, con il Pci a sostenere insieme alla destra, al vertice della Regione, il dc Silvio Milazzo contro il candidato ufficiale della Democrazia cristiana. Ci furono contrasti con La Torre? chiediamo a Macaluso. “No – risponde – nessun contrasto. In quell’esperienza c’era la volontà di dare alla Sicilia uno sviluppo autonomo, eravamo sulle stesse posizioni. La sconfitta dell’operazione Milazzo ha significato la sconfitta dell’autonomia. La spesa pubblica, dopo, è servita solo a finanziare una borghesia compradora, burocratica e mafiosa”.

Gli anni 60, Macaluso chiamato a Botteghe Oscure (1962), vedono il passaggio di La Torre – deputato dell’Ars – alla segreteria regionale del partito. Un’esperienza che s’interrompe a causa di una delle burrasche che periodicamente investono il Pci siciliano. Nel ’67, alle regionali, i comunisti subiscono una flessione, il gruppo dirigente viene messo sotto accusa, La Torre è costretto a dimettersi. “Fu un momento per lui molto doloroso. Aveva subìto critiche ingiuste. Ma seppe dare una grande lezione di stile: io venni chiamato a prendere nuovamente le redini del partito, alla segretaria regionale, lui accettò l’incarico di segretario provinciale”. Una retrocessione… “Una lezione di stile, ripeto. Te lo immagini oggi? Non stava bene, ebbe un momento delicato, per fortuna si riprese. Poi lasciò la Sicilia e venne a Roma: nel '69 divenne viceresponsabile della commissione agraria del Pci, nel '72 – l'anno in cui entrò in parlamento – passò alla commissione meridionale; nel ’76 prese il mio posto di responsabile della commissione agraria (dal 1972 ero di nuovo a Botteghe Oscure)”.

All’inizio degli anni 80 la vita di La Torre – che fa parte ora dell’ufficio di segreteria del Pci, è uno dei collaboratori più stretti di Berlinguer – ha un’accelerazione. È come se tutto improvvisamente precipitasse, nell’urgenza del fare, verso l’epilogo. “Nel partito siciliano, parlo dell’81, c’era di nuovo burrasca – riprende Macaluso –. Lui voleva tornare giù: per motivi di orgoglio e perché convinto che la crisi del Pci fosse essenzialmente un problema di stanchezza: credeva molto nel suo personale vigore. Chiese a me e a Paolo Bufalini, che considerava un secondo padre, di premere su Berlinguer perché desse il via libera. Giorgio Napolitano, all’epoca responsabile organizzativo del partito, andò a Palermo per le consultazioni, il regionale lo riaccolse con il massimo del consenso: ci fu un solo voto contrario”.

“Quando Pio ritorna in Sicilia sono già cominciati i delitti di mafia contro alcuni degli uomini più esposti nell’attività di contrasto: Boris Giuliano, poi Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Gaetano Costa, il magistrato della svolta nella lotta alla mafia. Lui, che è stato con Terranova l’estensore della relazione di minoranza dell’Antimafia, nel ’76, un testo fondamentale per capire come fosse cambiata Cosa nostra, comprende la gravità di quel che sta accadendo; e con Ugo Pecchioli va da Spadolini, presidente del consiglio, chiedendogli di mandare in Sicilia il generale Dalla Chiesa. Un gesto politico di grande importanza, una richiesta cui tanta parte della Dc si oppone duramente. Ha già avanzato, intanto, la proposta del reato di associazione mafiosa e della confisca dei beni, ha sottolineato a più riprese il pericolo dell’infiltrazione della mafia nella costruzione della base missilistica di Comiso...”. L’altro grande impegno della parte finale della sua vita… “Una grande battaglia, in nome delle pace, va ricordato, e contro tutti i missili”.

“La Torre è diventato ormai un protagonista assoluto della lotta alle cosche. E Cosa nostra raccoglie la sfida. Cominciano così a seguirlo, come si sarebbe dimostrato al processo. Ma non erano soli, i mafiosi. Sempre al processo, sempre su La Torre, c’era un faldone voluminosissimo dei servizi segreti. Lo pedinavano anche loro, per la sua battaglia contro i missili. Non si erano accorti, naturalmente, che in questo pedinamento avevano compagnia”.

“Il lunedì di Pasqua, quell’aprile, Pio venne a Roma, a casa mia. Abitavo in via Monserrato, allora, e dopo mangiato scendemmo sul lungotevere. La Sicilia, ciò che stava succedendo, poi d’un tratto: ‘Guarda, Emanuele, che adesso tocca a noi’”. “Tocca a noi – ripete Macaluso guardando fisso davanti a sé –, a noi…”. “Fu venti giorni dopo. Ero direttore dell’Unità... che ricordo terribile: Carlo Ricchini, il caporedattore, entrò improvvisamente nella mia stanza: ‘Hanno ammazzato La Torre’. Dovetti farmi forza, scrivere l’editoriale. Che ricordo terribile...”.