Nella tradizione popolare, il gufo viene spesso considerato un animale che porta sfortuna. Come altri animali notturni, si spera che non si metta a cantare sopra il proprio tetto. Eppure, sin dall’antichità, nella cultura di massa, gufi e civette hanno sempre rappresentato sapienza, saggezza, erudizione. Un udito sopraffino e una vista eccezionale gli permettono di vedere bene, lontano, anche nell’oscurità, anche nelle notti più buie.

Molti economisti vedono nell’inversione di tendenza di alcuni indicatori macroeconomici la tanto desiderata quanto rinviata ripresa dell’economia italiana. Un barlume di speranza sembra provenire dal segno positivo della dinamica trimestrale del Pil nazionale (gennaio-marzo 2015, + 0,3% rispetto al trimestre precedente e + 0,1% rispetto allo stesso trimestre del 2014). In effetti, dopo 14 trimestri di segno negativo o nullo, il primo segno positivo appare come un'importante novità.

Per tre anni, bollettini economici della Banca d'Italia, Rapporti annuali Istat, ma anche Bollettini Bce, Economic outlook del Fmi e dell’Ocse hanno parlato di “rallentamento della caduta”. Le previsioni istituzionali hanno tutte sbagliato ripetutamente e puntualmente l’anno della ripresa. Sta di fatto che dal 2008 al 2014, si è cumulata una caduta del Pil di ben 9 punti. Altro che rallentamento. Altro che ripresa. Nello stesso periodo, l’economia mondiale è cresciuta del 20,5%, quella americana del 7,9%, mentre l’Eurozona ha registrato una flessione dello 0,8% (comunque 11 volte meno intensa di quella italiana), in cui agli estremi si trovano la Germania (+ 5,2%) e la Grecia (- 28,8%).

Considerando, poi, il tasso medio annuo di crescita italiana negli anni 2001-2007 (1,2%), se non ci fosse stata la crisi il Pil italiano sarebbe cresciuto di almeno 17,4 punti negli ultimi sette anni. Considerando, invece, le proiezioni del Fmi (aprile 2015) del ritmo di crescita del Pil da qui al 2020, il nostro paese sarà tra i più lenti del mondo (185esimo su 189 paesi considerati). Il fatto è che l’economia italiana era in declino già prima della crisi.

Tutte le imprese a bassa specializzazione produttiva e piccola dimensione non hanno retto l’urto della competizione globale, né tantomeno della crisi. Così, investimenti e produzioni industriale si sono ridotti del 25% dal 2008 a oggi. Di conseguenza, il tasso di disoccupazione in Italia è passato dal 6,3% dell’ultimo trimestre 2007 (pre-crisi) al 13% del primo trimestre 2015, contando circa un milione di occupati in meno e gonfiando la platea dei disoccupati oltre la soglia dei 3 milioni di persone, a cui vanno aggiunti altri 700 mila disoccupati “potenziali” (scoraggiati, Neet, nuovi inattivi, sottoccupati ecc.).

Le recenti statistiche Istat sulle forze di lavoro nel mese di aprile 2015 indicano una riduzione congiunturale e tendenziale del tasso di disoccupazione di appena 0,2 punti e un aumento del tasso di occupazione di 0,4 punti, che lo solleva a quota 56,1%, ma che ci mantiene al penultimo posto nella classifica dei paesi Ocse.
L’ultima rilevazione Istat sui prezzi al consumo (dati provvisori) di maggio 2015 indica un'inflazione tendenziale dello 0,2%, dopo aver chiuso il 2014 in deflazione e i primi 4 mesi dell’anno ancora con il segno meno. È la ripresa?

Ma soprattutto: cos’è la “ripresa”? Ammesso che non ci sia più alcuna ulteriore flessione del Pil nazionale, quanti anni ci vorranno ancora per tornare ai livelli pre-crisi?
E, soprattutto, la “ripresa” del Pil si traduce in un ripristino dell’occupazione perduta? E i salari, i consumi, individuali e collettivi, gli investimenti, il benessere, l’equità sociale, il progresso, lo sviluppo? Occorre, dunque, interrogarsi sul significato stesso di “ripresa”. Per farlo, possiamo affrontare la questione dal punto di arrivo, anziché da quello di ri-partenza: l’uscita dalla crisi avviene quando sono state disinnescate le cause all’origine della stessa crisi, per impedirne la riproposizione, riformando il modello di crescita e di sviluppo. In questa prospettiva, sono necessarie sapienza, saggezza, ascolto e lungimiranza. Proprio le virtù dei gufi.

La profondità dell'analisi, il confronto continuo, il rigore scientifico e l’onestà intellettuale restituiscono alla Cgil il merito di aver avvertito subito la vastità di questa nuova “grande crisi”. La terza in tre secoli e tre rivoluzioni industriali, ma anche la più imponente. Sappiamo, infatti, che ad andare in crisi è l'intero modello di sviluppo globale, dopo la nuova “grande trasformazione” del capitalismo trainata dalla globalizzazione, dalla tecnologia e, soprattutto, dalla finanza. Ne è dimostrazione il fatto che, ancora oggi, dinnanzi alla tenue ripresa dell’area euro (+ 0,4% nel primo trimestre 2015), si conta un inatteso rallentamento dell'economia Usa e di quelle di nuova crescita, tra cui spicca la frenata della Cina. Dal 2007 a oggi non c’è mai stato un trimestre consecutivo in cui si registrasse contemporaneamente un incremento della produzione nelle economie avanzate e in quelle emergenti. Come tra enormi “vasi comunicanti”, l’eccesso di sovraproduzione globale comporta che le grandi aree economiche del pianeta si scambino crescita e recessione, occupazione e depressione, inflazione e deflazione.

Dopo sette anni di crisi, i cosiddetti squilibri macroeconomici globali ancora insistono e continuano a evidenziare la crisi di domanda in cui è caduta l'economia global
e. Una crisi innescata dall’accentuazione delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza, alimentata dalla degenerazione finanziaria, che ha inevitabilmente comportato alti livelli di disoccupazione, forti riduzioni salariali, minori investimenti e innovazione. Per questo occorre un nuovo intervento pubblico in economia, in Italia come in Europa.

Alla radice delle cause della crisi, però, c’è una politica liberista, guidata dal mercantilismo, dall’individualismo e dalla speculazione finanziaria. Ecco perché le cause all'origine della crisi continuano ad agire indisturbate. Anzi, la negazione del fallimento del pensiero economico liberista ha addirittura indotto le istituzioni europee a moltiplicare la crisi attraverso le politiche dell’austerità, ovvero rigore fiscale e svalutazione del lavoro. Serve a poco l’allentamento monetario della Bce. La politica monetaria, per quanto non convenzionale, non risolve i vuoti della domanda aggregata.

Senza una politica fiscale espansiva non è possibile creare nuova occupazione, nuovi redditi, nuovi investimenti, nuovi consumi. Persino la Banca d’Italia e l’Istat hanno recentemente stimato che la possibile crescita del Pil italiano è dovuta in larghissima parte ai potenziali effetti positivi sugli scambi di merci e capitali dovuti alla riduzione del costo del petrolio e alla svalutazione competitiva della moneta unica dettata dal Quantitative Easing europeo. E tuttavia, a marzo di quest’anno il prezzo del Brent torna a salire e da febbraio è iniziato l’aumento dei tassi di interesse a lungo termine negli Stati Uniti, che sconta un riapprezzamento del tasso di cambio dell'euro nei confronti del dollaro.

Si può negare la crisi, si può anche negare il dialogo o, semplicemente, l’ascolto con chi resta in allerta sulla crisi e propone soluzioni diverse da quelle del governo.
Ma la crisi resta e continua a generare disoccupazione, povertà, dissesto sociale, disordine geopolitico e indebolimento delle istituzioni democratiche. Anzi, scommettere su una fiducia delle famiglie e delle imprese fondata su una mistificazione della realtà e su un’ipnosi mediatica – anziché su aspettative reali di lavoro e di reddito – produce solo nuove bolle speculative e illusioni socialmente controproducenti. Il cuore duole anche se l’occhio non vede.