Diritto allo studio: il gioco delle tre carte. In un Paese in cui la percentuale dei laureati tra i giovani è tra le più basse d’Europa (il 29 per cento, contro il 38 della media Ue) e solo uno su tre tra chi ha un’età compresa tra i 19 e i 25 anni è iscritto a un ateneo, la legge di bilancio appena approvata ha rappresentato ancora una volta un’occasione persa. Il Fis (il Fondo integrativo statale per le borse di studio) è stato aumentato di appena 20 milioni. Addirittura 10 in meno rispetto ai 30 – sempre insufficienti – che erano stati stanziati nei passaggi parlamentari della manovra e che sono stati sottratti con un vero e proprio colpo di mano dal governo nel passaggio al Senato.

Questo piccolo aumento, spiega Elisa Marchetti, coordinatrice dell’Udu, “ci lascia amareggiati: certo si tratta di un passo in avanti, ma non sufficiente”. La delusione è dovuta non solo alle borse di studio: “Purtroppo nel passaggio alla Camera – spiega la coordinatrice dell’Udu – non sono stati approvati neanche quegli emendamenti, presentati dagli stessi parlamentari della maggioranza, che avrebbero ulteriormente migliorato la disciplina sulle detrazioni fiscali degli affitti degli studenti fuorisede, già modificata nel decreto fiscale”.

In Italia la quota di giovani iscritti all’università è pari appena al 40,8 per cento del totale (negli Stati Uniti e in Spagna, solo per fare un esempio, supera l’80) e negli anni della crisi si sono persi 60 mila studenti. Il fatto è che, invece di provare ad agevolare chi vuole studiare, negli ultimi tempi sembra si sia quasi scientemente perseguito un obiettivo opposto: le tasse universitarie in dieci anni sono cresciute mediamente del 60 per cento, sono aumentati gli accessi a numero chiuso o programmato, e continuano a essere insufficienti le risorse stanziate per rimuovere quegli ostacoli di ordine economico che impediscono a molti di proseguire negli studi: dagli alloggi alle mense, ai trasporti.

Il paradosso delle borse di studio
Con effetti paradossali, come quello degli studenti idonei, ma non beneficiari: coloro cioè che per reddito e meriti hanno diritto alla borsa, ma non la ricevono per mancanza di risorse disponibili. “Secondo i nostri calcoli – osserva ancora Marchetti – sono ben 22 mila. Per arrivare a coprire almeno questa platea, servirebbero 150 milioni di euro, i 30 stanziati certamente non bastano”. Ma anche si riuscissero a coprire tutti gli idonei alla borsa, saremmo comunque sempre molto lontani dai dati dei maggiori Paesi europei. I numeri li snocciola Federica Laudisa, ricercatrice dell’Osservatorio sul diritto allo studio della Regione Piemonte, tra i massimi esperti della materia: “La percentuale degli aventi diritto alla borsa di studio in Italia è dell’11 per cento, poco più di uno studente su dieci. In Francia ben il 38 per cento degli studenti ha una borsa, in cifra assoluta si tratta di 691 mila persone. Questi risultati sono frutto di investimenti che sono aumentati anche durante gli anni di crisi, fino ad arrivare a oltre due miliardi di euro l’anno”.

La percentuale degli aventi diritto alla borsa di studio in Italia è dell’11 per cento, poco più di uno studente su dieci. In Francia sono il 38 per cento

Qualsiasi comparazione con il nostro Paese è, come sempre in questi casi, deprimente: fino allo scorso anno il fondo statale per le borse ammontava a 217 milioni di euro, a cui vanno aggiunti i 20 in più stanziati con la manovra. Poi ci sono 225 milioni di euro circa di gettito della tassa regionale per il diritto allo studio e l’integrazione del 40 per cento a carico delle Regioni. “Siamo ben lontani non solo dalla Francia – commenta la ricercatrice –, ma persino dai 900 milioni che investe la Spagna”.

Ciò che danneggia ulteriormente gli studenti, anche i pochi fortunati che hanno ottenuto la borsa, sono come al solito le procedure burocratiche: “In Francia lo studente riceve mensilmente la sua rata di borsa di studio – aggiunge Laudisa –. In Italia si può dire che si tratta quasi di un rimborso spese: nella migliore delle ipotesi la prima rata arriva intorno a dicembre”. Con alcuni casi limite: in Calabria non sono state ancora liquidate le spettanze relative allo scorso anno. Anche qui l’esito è paradossale: persino chi riceve un sostegno, perché sotto una certa soglia economica familiare, ha poi bisogno che sia la stessa famiglia ad anticipargli il denaro necessario per studiare.

In Italia per avere la prima rata della borsa gli studenti devono attendere spesso fino a dicembre

Nonostante questi limiti, Laudisa riconosce che qualcosa, anche se ancora poco, si sta facendo: “Lo scorso anno è stata innalzata la no tax area (13 mila euro reddito Isee), mentre con l’ultima legge di bilancio il fondo statale va direttamente alle aziende per il diritto allo studio ed è stata prevista l’istituzione di un ente unico regionale finalizzato allo stesso scopo, in modo da uniformare i criteri di accesso, cosa che purtroppo ancora in alcune aree del Paese non accade. In Calabria, solo per dirne una, ci sono tre diverse soglie Isee a Catanzaro, Reggio Calabria e Cosenza”.

Da Nord a Sud
Questo della disomogeneità territoriale è un altro tema cruciale, con il Sud che come al solito sta più indietro. “In Sardegna la situazione è drammatica – racconta Antonio Pala, studente dell’Udu di Sassari –. L'anno scorso la Regione ha deciso di stanziare soltanto lo 0,36 per cento delle risorse dell'intera finanziaria regionale sul diritto allo studio, cioè 33 milioni su un totale di 9 miliardi di manovra regionale. I risultati sono evidenti: solo nella nostra città ci sono 593 studenti idonei, ma non beneficiari di borsa, un ragazzo su cinque”. Ma il diritto allo studio riguarda, oltre alle borse, anche altri aspetti essenziali, a cominciare dall’alloggio, dalla mensa e dai trasporti. Anche su questi capitoli però siamo praticamente all’anno zero: “Mancano 253 posti letto su un totale di 750 richieste – denuncia Pala –. Tutte situazioni che spesso vanno ad alimentare il mercato degli affitti in nero”.

A Milano per una stanza in affitto si spendono anche 700 euro al mese e la Regione continua a tagliare i fondi

Solo apparentemente migliore la situazione a Milano, dove per chi non può permetterselo studiare diventa sempre più difficile, quasi un percorso a ostacoli. “A partire dagli affitti esorbitanti, anche 700 euro per una stanza singola, rispetto ai quali le risorse messe a disposizione dalla Regione sono assolutamente insufficienti – racconta Carlo Dovico, studente e dirigente dell’Udu del capoluogo lombardo –.  In Lombardia il diritto allo studio è visto come un bancomat: quando c'è bisogno di far quadrare i conti si toglie qualche milione di euro. Questa tendenza va avanti da almeno 4 anni. Da quando c’è Maroni abbiamo avuto continui tagli alle borse di studio o ai servizi: alloggi e mense. L'università di Milano per esempio mette a disposizione 550 posti letto a fronte di una platea di 28 mila iscritti fuori sede”.

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Pesa anche molto la questione delle tasse: il Politecnico di Milano, con una tassa media di oltre 2 mila euro l’anno, è l’ateneo più caro d’Italia, ma anche Bicocca e Statale hanno fatto registrare incrementi quasi del 50 per cento negli ultimi 10 anni. Alla Statale in media si paga una tassa di 1.600 euro: “Siamo quasi ai livelli delle università private, non certo favorevoli alle classi di reddito più basse o medie”, sottolinea lo studente. Quanto raccontato chiama in causa anche le Regioni e le loro mancanze: “Secondo la Costituzione – riprende Marchetti –  la materia è di competenza delle Regioni, che per legge dovrebbero integrare del 40 per cento le risorse centrali, ma molte non lo fanno. Spesso, oltre che sulle borse di studio, non investono sul personale e sulle strutture abitative, una delle altre grandi emergenze italiane, visto che solo il 2 per cento degli iscritti accede alle case dello studente”.

La questione del personale
Naturalmente, non è possibile ragionare sulle mancanze in tema di diritto allo studio, trascurando tutto il resto: e cioè il taglio costante in materia di risorse e personale che l’università subisce da anni. “Se dobbiamo mettere in campo risorse adeguate per supportare gli studenti, è chiaro che dovremmo avere anche un maggior numero di docenti e strutture adeguate – osserva Renato Comanducci, della Flc Cgil nazionale –. E anche da questo punto di vista la legge di bilancio non risolve nulla: l’assunzione di 1.300 ricercatori rappresenta non più di una goccia nel mare, un piccolo segnale di attenzione, ma davvero molto poco”.

L'assunzione dei 1.300 ricercatori nelle università prevista dalla legge di bilancio è solo una goccia nel mare

Negli ultimi sei anni i docenti sono scesi del 22 per cento, il 40 per cento del personale è precario. In più, conclude il dirigente della Flc, “la distribuzione del corpo docente è poco omogenea sul territorio e i pensionamenti procedono a ritmi sempre più incalzanti: in meno di dieci anni la Sapienza di Roma ha perso più del 30 per cento del proprio corpo docente”. Non ci possiamo meravigliare, se così stanno le cose, che in Italia la percentuale di lavoratori laureati è tra le più basse dell’area Ocse: per ridurre questo gap – e portare il nostro Paese verso il segmento alto della divisione globale del lavoro – c’è una sola strada: investire di più e con oculatezza nel nostro sistema di istruzione e formazione.

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