Una stima approssimativa sul territorio nazionale indica circa 100.000 siti contaminati. Di questi ne sono già stati identificati e quindi in qualche modo inclusi all’interno delle anagrafi a oggi sviluppate dalle Regioni circa 15.000, un trend in crescita rispetto al 2008. Il dato relativo ai siti bonificati con certificazione di avvenuta bonifica da parte delle Province comprende oltre 3.000 siti, dei quali 1.238 derivano dalle informazioni fornite dalla Regione Lombardia. Le attività che danno luogo alla contaminazione sono di tipo commerciale e industriale e insieme totalizzano circa il 40 per cento dei siti. C’è poi un grande apporto (20 per cento circa) delle discariche, sia di tipo industriale che urbano. A seguire, un contributo proveniente da altre attività, a cominciare dalla contaminazione derivante da depositi di idrocarburi o da siti di stoccaggio-conferimento di idrocarburi.

Non solo. Ci sono anche le attività minerarie, che per alcuni siti di carattere nazionale incidono in maniera determinante per una grande fetta di territorio: il sito del Sulcis Iglesiente, per fare un esempio, è occupato solo da attività minerarie. Senza dimenticare la piccola fetta di siti militari interessati da contaminazione, un altro ambito che varrebbe la pena indagare, perché si tratta di una realtà che comincia solo ora a essere associata a esigenze di bonifica. Per quanto riguarda il contributo delle varie attività alla contaminazione, il 30 per cento circa è dovuto all’apporto dell’industria chimica, il 20 per cento è determinato dai prodotti dell’industria petrolifera, il 15 per cento riguarda la produzione energetica, e a seguire un 20 per cento, distribuito su tutto il territorio nazionale, attribuibile ai punti vendita di carburanti, che sono situati anche in ambiente urbano. Passando ad analizzare gli impatti sulle matrici ambientali dei vari contaminanti, abbiamo una prevalenza assoluta in tutti i siti dei metalli pesanti, poi un buon contributo di idrocarburi, clorurati e non, e di Ipa (Idrocarburi policiclici aromatici ), che però non sono stati controllati da tutte le Regioni.


In un questionario del 2011 della rete Eionet (European environment information and observation network) della Commissione europea veniva chiesto all’Italia quanto venisse valutata la perdita di biodiversità nei criteri e nella realizzazione dell’intervento. La risposta era (ed è) zero. Non risulta – in un paese ancora moto legato al concetto di protezione per l’uso idro-potabile delle acque sotterranee – alcun intervento effettuato ai fini della preservazione della biodiversità. Ma come vengono gestiti gli interventi prioritari e come si opera per la riduzione del rischio? I dati resi noti dall’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) mostrano una nettissima prevalenza dell’escavazione e del conferimento in discarica dei terreni. Proprio così. In un paese dove non ci sono impianti per il conferimento dei rifiuti – dove una città come Roma va in emergenza perché non si sa dove andare a portare i rifiuti urbani – si pretende di gestire il problema delle bonifiche di 100.000 siti potenzialmente contaminati solo con l’escavazione, che è un’altra forma di produzione di rifiuti.

Per i suoli si segnala qualche trattamento fisico, di tipo chimico o biologico, ma questi non coprono che un 25 per cento di tutto l’ammontare del materiale da bonificare. I trattamenti termici in situ, invece, sono pari allo zero. Abbiamo un trattamento, sempre per un 25 per cento circa, off site, basato su escavazione e trattamento del terreno fuori sito. Per il rimanente, il terreno viene semplicemente spostato in una discarica che non darà problemi per i prossimi quarant’anni. Per quel che concerne le acque sotterranee, la situazione è assolutamente speculare a quella dei suoli, con un contenimento del 45 per cento che avviene attraverso misure di confinamento fisico o di barrieramento delle acque sotterranee.

I trattamenti in situ delle acque sotterranee, sia biologici che chimico-fisici, sono pochissimi, solo un 25 per cento. Al massimo, si fa un pump and treat (pompaggio e trattamento) in un impianto idoneo che dovrebbe essere realizzato possibilmente nel sito, ma che spesso si trova all’esterno e presenta tutte le problematiche concernenti il trasporto dei rifiuti liquidi. Tutti questi dati vanno comunque valutati con il beneficio del dubbio, perché ricavati dalle anagrafi che sono state a oggi realizzate dalle Regioni, e solo alcuni di questi sono aggiornati. Le anagrafi sono state costituite a livello locale senza una condivisione dei dati inseriti o inseribili, per cui se in Calabria i siti contaminati sono costituiti quasi esclusivamente – tranne i siti d’interesse nazionale – dalle discariche abusive che sono state censite dalla Forestale nel 2006 a seguito di una procedura d’infrazione da parte della Commissione europea, in Lombardia vengono inseriti in anagrafe anche i punti vendita, per cui abbiamo una disomogeneità dei dati che poi vengono considerati a livello complessivo.

Per il 60 per cento, dunque, la contaminazione di suolo, sottosuolo, acque sotterranee e sedimenti è dovuta ad attività industriali e allo smaltimento di rifiuti industriali. Il ricorso alle tecnologie in situ che si era cercato di incentivare con il dm 741 prima e con il 152 poi è assolutamente insufficiente e si continua a ricorrere allo scavo e allo smaltimento in discarica per il suolo e al confinamento per le acque sotterranee. Al di là delle cause di questo ritardo, che possono essere molteplici, è evidente la necessità di trovare delle soluzioni. Il governo nazionale ha cercato di introdurre dei provvedimenti normativi, alcuni dei quali sono stati oggi tradotti in legge e altri sono ancora in discussione in Parlamento.

Il primo provvedimento che è stato preso per cercare di sbloccare la vicenda delle bonifiche e favorire lo sviluppo e la reindustrializzazione dei siti è contenuto nella cosiddetta legge “Salva Italia”, pubblicata sulla Gazzetta il 27 dicembre del 2011, che all’articolo 40 comma 5 prevede la possibilità, nel caso di interventi di bonifica o di messa in sicurezza di particolari complessità, di articolare il progetto per fasi distinte, al fine di rendere possibile la realizzazione degli interventi per singole aree o per fasi temporali successive. Così, se l’intervento è particolarmente difficile, non si chiede di effettuarlo tutto insieme, ma la legge dà la possibilità di intervenire per fasi spaziali o temporali, privilegiando magari quelle aree che possono essere immediatamente destinate a una riqualificazione produttiva. Questa nuova norma offre anche la possibilità di fare gli interventi che risultano necessari per l’adeguamento degli impianti e delle reti tecnologiche, purché non intralcino le attività, e la possibilità di effettuare o completare gli interventi di bonifica.

Ovviamente, sempre nel rispetto di quella che è la normativa nazionale sulla prevenzione dei rischi dei lavoratori. Questo quindi è il primo provvedimento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Poi ci sono una serie di altre misure. Nella conversione in legge del decreto recante “misure straordinarie e urgenti in materia ambientale”, che era composto di soli tre articoli, di cui il primo interamente dedicato all’emergenza Campania, all’articolo 3 c’è un’interpretazione autentica dell’articolo 185 del dlgs 152/06, che praticamente riconduce i materiali di riporto che noi ritroviamo frequentemente nei siti industriali, soprattutto nei primi metri di matrice, ai suoli. Consente cioè di considerare questi terreni di riporto, costituiti da materiali eterogenei sicuramente non assimilabili per caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in situ, ai suoli, ai terreni, permettendo così l’applicazione dell’analisi di rischio e la possibilità di effettuare interventi di bonifica. Di fatto, la gestione dei materiali di riporto verrà introdotta da parte del ministero dell’Ambiente con un decreto di prossima emanazione che riguarda le terre e le rocce da scavo e che disciplinerà anche gli interventi che riguardano i riporti. Fino all’entrata in vigore di quest’ultimo decreto, le matrici dei riporti eventualmente presenti nel suolo potranno essere considerate, in presenza delle condizioni necessarie, sottoprodotti.

Con l’introduzione dell’articolo 185 del dlgs 152, che considera il riporto suolo e lo inserisce all’interno del procedimento di bonifica, si sta invece cercando di evitare che qualsiasi riporto sia considerato rifiuto e che venga quindi scavato e conferito in discarica. Un altro testo sempre approvato dalla Camera riguarda le “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e sviluppo”; in particolare, gli articoli 24 e 57 introducono due ulteriori previsioni che riguardano l’applicazione degli interventi di bonifica. All’articolo 24 comma 1 viene prevista la possibilità di valutare l’adozione di tecnologie innovative nell’ambito dell’articolazione per fasi: se nell’applicazione di una tecnologia per fasi spaziali o temporali ci si accorge che esiste una nuova tecnologia potenzialmente applicabile per quel tipo di sito, si può effettuare una variante progettuale. Un’altra misura per cercare di incentivare l’utilizzo di tecnologie innovative, con particolare riferimento alle tecnologie in situ. Non meno importanti le altre previsioni normative che si trovano nell’articolo 57 e che riguardano la possibilità di stipulare accordi di programma. Il primo esempio di questi accordi è quello per la reindustrializzazione di Porto Marghera. Dalla struttura di questo importante accordo di programma si potrà capire qual è l’orientamento applicativo dell’articolo 57, per cercare di sbloccare e di trovare una destinazione ai siti industriali che a oggi ancora devono essere bonificati.