Dal 7 aprile al 26 maggio, cominciando in Lombardia per finire in Veneto, migliaia di lavoratrici e lavoratori dei servizi pubblici hanno scioperato per rivendicare il diritto al rinnovo dei contratti. Donne e uomini, lavoratori pubblici e privati, che ogni giorno fanno funzionare i servizi di welfare. I loro contratti sono scaduti da sette e dieci anni. La partecipazione alle manifestazioni e le adesioni agli scioperi più alte del passato dicono del valore della mobilitazione unitaria delle categorie di Cgil, Cisl e Uil. Convintamente assieme pubblici e privati per i contratti di filiera, per riconoscere pari diritti e trattamenti a parità di lavoro.

Senza risposte dal governo sarà inevitabile continuare la mobilitazione. Almeno fino alla convocazione delle trattative e poi per affrontare il tema delle risorse, quando si discuterà la legge di stabilità. Per ora dal governo solo annunci. Manca una direttiva all’Aran, ma la posizione delineata dal ministro Madia sembra molto simile a quella di Federmeccanica: indebolire il contratto nazionale, adeguamenti stipendiali solo per pochi addetti e in ragione della produttività, quindi a consuntivo e solo con la contrattazione aziendale, fatte salve (forse) le retribuzioni più basse. Una posizione troppo distante dagli obiettivi sindacali, che vanno ora meglio declinati per evitare una trattativa a rimorchio del governo o destinata a nuove divisioni nel nostro campo.

Dopo un periodo di blocco dei contratti nazionali e della contrattazione come quello che abbiamo conosciuto è evidente che non ci si può limitare a “rinnovare” i contratti scaduti. Come nei primi anni novanta, si tratta ora di “innovare” lo strumento contrattuale, a meno che non si pensi davvero che il mancato rinnovo dal 31 dicembre 2009 sia solo addebitabile alla volontà di una delle parti o alla scarsità di risorse disponibili per effetto della crisi. Più verosimilmente, quando un contratto non si rinnova per così tanto tempo è segno che lo strumento in sé non è ritenuto utile da ambo le parti ad affrontare i temi che la crisi propone.

Dopo il blocco dal 1990, a metà del decennio si rinnovarono i contratti del settore. Quei rinnovi segnarono “un prima e un dopo” nelle relazioni sindacali e nella contrattazione, passando dall’accordo tra governo, associazioni datoriali e sindacati del 1993. Prima, i contratti dei “pubblici” erano giuridicamente decreti del presidente della Repubblica, avevano durata triennale; quanto alla partecipazione del sindacato prevedeva la negoziazione decentrata e l’esame congiunto (senza obbligo di accordo e per massimo 15 giorni), il personale era inquadrato per livelli retributivi corrispondenti ai profili professionali.

Dopo, i “nuovi” contratti divennero atti di diritto privato (norma pattizia), grazie alla contrattualizzazione introdotta con il decreto legislativo n. 29 del 1993. La durata divenne quadriennale per la parte normativa e biennale per quella economica. La partecipazione sindacale fu codificata con l’informazione (preventiva e/o successiva), la concertazione e la contrattazione integrativa. S’introdusse il sistema di classificazione per aree (inquadramento giuridico) e posizioni economiche (sviluppo delle carriere). Nel 2011 la Fp Cgil, alle prese con gli effetti dei tagli di spesa e le esternalizzazioni e con il cambiamento profondo anche della sua base associativa, ebbe l’intuizione di pensare a un contratto profondamente innovato per rispondere all’esigenza di ricomporre il mondo del lavoro dei servizi pubblici.

Lo slogan “stesso lavoro, stesso salario, stessi diritti” portò all’idea del contratto di filiera, in grado di unificare il mondo del lavoro pubblico con quello privato, in ragione della natura del servizio e non più dei diversi datori di lavoro, partendo dal bisogno, da un lato, di mettere al centro la qualità dei servizi per i cittadini utenti e, dall’altro, di arginare gli effetti della precarietà di sistema, impedendo il dumping contrattuale. Quell’intuizione è diventata patrimonio unitario delle linee guida per le piattaforme contrattuali. Ma, alla prova negoziale, occorre passare dall’intuizione alla proposta di contenuto contrattuale. Dopo l’accordo tra Aran e sindacati sui nuovi comparti di contrattazione pubblica, governo e sindacati devono entrambi mettersi alla prova sul versante dell’innovazione.

Per quanto ci riguarda è il tempo di avviare il percorso di costruzione delle filiere coerentemente con l’impegno di traguardarle entro tre tornate contrattuali, che non può tradursi con il rinvio di un decennio, ma degli evidenti segnali che si va in quella direzione devono esserci già con il prossimo rinnovo. Il negoziato dovrà infatti sia adeguare il sistema delle tutele e delle garanzie individuali (per esempio, facendo vivere i contenuti della Carta dei diritti universali del lavoro), sia riformare gli strumenti dell’organizzazione del lavoro e della partecipazione collettiva, intervenendo sui capitoli delle relazioni sindacali, del sistema di classificazione, della contrattazione integrativa.

Le relazioni sindacali
Il protocollo unitario di Cgil, Cisl e Uil per un nuovo modello di relazioni industriali deve rappresentare testo di riferimento anche per i contratti pubblici che tendono alla costruzione delle filiere pubblico/privato. Il rapporto tra primo e secondo livello di contrattazione e un’articolazione efficace del secondo livello devono essere il fulcro dell’intervento riformatore. La conferma del doppio livello di contrattazione passa inevitabilmente per il rafforzamento del contratto nazionale attraverso la sua inderogabilità. Negli anni, norme nazionali a impatto diretto sull’organizzazione del lavoro, giudicate troppo rigide dalle rappresentanze aziendali, sono state da queste derogate, con il consenso dei lavoratori e anche delle organizzazioni sindacali territoriali.

Per questo bisogna ben distinguere la definizione a carattere generale di un diritto (per esempio, in materia di orari, di ferie, di riposi ecc.) con la sua applicazione concreta e calata nella singola realtà organizzativa. Allo stesso modo, va resa effettivamente esigibile ed efficace la contrattazione di secondo livello. Per evitare, da una parte, la spinta alla proliferazione dei contratti aziendali “di primo livello” (si veda il caso della sanità privata e del sociosanitario) e, dall’altra, che processi di ristrutturazione e riorganizzazione di enti e aziende non vedano il giusto presidio delle rappresentanze dei lavoratori. È necessario immaginare un’articolazione del secondo livello di contrattazione che sappia rendere efficace l’intervento negoziale su materie che mal si tarano sia sul livello nazionale, sia su quello aziendale, così come per contribuire efficacemente all’obiettivo di realizzazione della filiera.

Il rafforzamento del livello regionale su tutte le partite relative alle riorganizzazioni e ristrutturazioni aziendali, tanto nel privato quanto nel pubblico, sugli istituti della mobilità, della determinazione dei fabbisogni di organico e della formazione in sanità, sull’utilizzo di nuove figure professionali, può rappresentare una risposta credibile a chi vede nella regionalizzazione dei contratti nazionali la prospettiva possibile. In più, in sanità e nel sociosanitario il livello regionale, in ragione della definizione degli standard di accreditamento, può rappresentare un concreto laboratorio di costruzione della filiera, pubblico/privato, dei nuovi contratti della sanità e dell’assistenza.

Il sistema di classificazione
Il sistema di classificazione per aree e posizioni economiche ha risposto al bisogno di assicurare prospettive di carriera senza dover cambiare inquadramento giuridico che l’ordinamento per livelli retributivi obbligava. A vent’anni di distanza quel sistema presenta alcune criticità. Intanto, pur essendo un sistema omogeneo tra pubblico e privato, nella sua concreta applicazione ha prodotto numerose, profonde e non sempre giustificabili disuguaglianze. È evidente in sanità, dove nel pubblico ancora oggi muove una nuova richiesta di introdurre una nuova fascia di retribuzione, avendo esaurito le cinque/sei già previste e nel privato, al contrario, la mobilità interna alle fasce non c’è stata con tutto il personale ancora inquadrato nelle posizioni iniziali.

Non solo. Il sistema di classificazione è stato più spesso usato come strumento di premialità (sia da parte delle aziende, sia da parte delle rappresentanze sindacali) che come strumento di organizzazione del lavoro e dell’azienda. Con il risultato che gli attuali inquadramenti spesso non sono utili a determinare veritieri livelli di responsabilità e autonomia degli addetti, generando non poche situazioni di conflitto tra gli stessi. Peraltro, utilizzando in maniera impropria le risorse riservate alla contrattazione aziendale, riducendo le potenzialità della contrattazione sull’organizzazione reale del lavoro, favorendo un uso unilaterale delle risorse contrattuali da parte delle aziende.

Nella nuova stagione contrattuale, al sistema di classificazione va restituito il suo ruolo organizzatore, perché diventi anche strumento utile ad avviare il processo di unificazione del mondo del lavoro pubblico con quello privato. Ciò è possibile depurandolo degli elementi di premialità che, altrimenti, dovrebbero stare dentro la variabilità dei premi di risultato e nella dinamica della contrattazione integrativa aziendale. Un nuovo sistema di classificazione che, fermo restando il principio della separazione dell’inquadramento giuridico (legato alla professione/mestiere) dall’inquadramento economico, individui indicatori obiettivi e valutabili per definire la collocazione di ciascun addetto dentro la sua organizzazione. In tal senso, si può immaginare un sistema imperniato su quattro variabili: la competenza, l’esperienza, la responsabilità e l’autonomia.

La competenza (il mestiere o la professione del lavoratore). È certificata dal titolo di studio o professionale, con livelli di accesso differenziati; è definibile per declaratorie e profili esemplificativi. È riconosciuta per effetto del contratto nazionale. L’esperienza (l’anzianità di servizio o di lavoro). Prevede una parametrazione differenziata per blocchi di anzianità (0-5 anni; 5-10 anni; 10-15 anni; 15-20 anni; 20-25 anni; ecc.). È riconosciuta per effetto del contratto nazionale. La responsabilità (la collocazione soggettiva del lavoratore nell’organizzazione della propria azienda/amministrazione). Prevede una parametrazione differenziata per complessità gestionali/organizzative dei compiti assegnati (nessuna responsabilità gestionale/organizzativa, responsabilità gestionale/organizzativa semplice; responsabilità gestionale/organizzativa complessa). È riconosciuta dalla direzione aziendale sulla base degli indicatori definiti dal ccnl e in ragione dell’organizzazione aziendale, previa definizione con le rappresentanze aziendali. L’autonomia (il grado di capacità di risoluzione dei problemi propri delle mansioni assegnate da parte del lavoratore e in ragione della collocazione nell’organizzazione del lavoro). Prevede una parametrazione differenziata nell’ambito del contratto nazionale. È riconosciuta dalla direzione aziendale sulla base dell’applicazione del sistema di valutazione, previo confronto con le rappresentanze aziendali.

I primi due elementi di inquadramento (competenza ed esperienza) sono determinati automaticamente per effetto del contratto nazionale e prevedono la progressività di inquadramento al variare delle condizioni di merito (titoli di studio/professionali e anzianità di servizio/di mansione). Gli altri due elementi di inquadramento sono effettivamente disponibili al livello aziendale e sono variabili. Il contratto nazionale stabilisce tutele e condizioni della variabilità di inquadramento per i singoli lavoratori (possono variare le condizioni per motivi soggettivi – cambio di reparto o di servizio, valutazioni negative ecc. – o per motivi oggettivi – riorganizzazioni aziendali, processi di mobilità, cambio di datore di lavoro ecc. –).

La contrattazione integrativa
La contrattazione integrativa va rafforzata. Nel pubblico vanno superati i vincoli della legge Brunetta. Va semplificata la gestione dei fondi contrattuali, consolidando i budget storici e rendendoli base disponibile per la contrattazione finalizzata al miglioramento dei servizi e alla qualità del lavoro. Va resa effettivamente disponibile la possibilità di integrare le risorse disponibili in sede locale per effetto di processi di miglioramento dell’organizzazione del lavoro. Vanno definiti livelli e materie dell’articolazione del secondo livello di contrattazione tra regionale, territoriale, posto di lavoro, aziendale, gruppo, incentivando, soprattutto per i piccoli enti e aziende, la contrattazione in forma associata.

Florindo Antonio Oliverio è segretario generale della Fp Cgil Lombardia