Il settore dei call center ha dato lavoro a 80mila giovani nell'ultimo decennio, è stato uno dei pochi settori a creare davvero occupazione in Italia. Tra i lavoratori c'è un altissimo tasso di scolarità e di lavoro femminile, ma anche troppe difficoltà dovute - prima di tutto - a un problema legislativo. Ha esordito così il segretario nazionale della Slc Cgil, Michele Azzola, oggi (8 luglio) in audizione in Commissione Lavoro alla Camera. I sindacati sono stati ascoltati nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui call center nel territorio italiano. Le organizzazioni - in accordo tra loro - hanno lanciato un grido d'allarme sul "popolo delle cuffiette", portando a Montecitorio le loro condizioni e le tante preoccupazioni del futuro. All'unanimità hanno chiesto al governo un intervento legislativo per regolare il settore.

"Oggi c'è una serie di conflitti, leggi, incentivi e vuoto normativo che sta creando un vero 'sconquasso' occupazionale, che non è presente negli altri paesi europei - ha detto Azzola -. E' in moto un meccanismo di migrazione dell'occupazione: dopo 3 anni, persi gli incentivi, un'azienda diventa meno competitiva rispetto a chi apre ex novo, che beneficia di un costo del lavoro minore dell'87%. E allora non c'è partita". Le conseguenze? "I call center si sono spostati dal Nord al Sud dal paese, ora si spostano ad Est con i primi fenomeni di delocalizzazione. Nel 2012-2014 lo Stato spende una grande cifra per ammortizzatori e incentivi all'occupazione ma - paradossalmente - senza creare occupazione".

Uno dei motivi, secondo Azzola, è che "l'Italia ha trasporto male la direttiva europea del 2001. Il testo prevede che, nel passaggio di attività economica, ci sia una tutela ai lavoratori che mantengono diritti e posto di lavoro. Da noi abbiamo limitato la direttiva alla cessione di ramo d'azienda, escludendo il cambio di appalto: questo è regolato da norme confuse, che assegnano solo la responsabilità solidale come forma di tutela. La contrattazione è totalmente esclusa, il sindacato viene coinvolto quando i lavoratori già hanno perso il posto. Non c'è negoziazione preventiva - quindi -, quando interveniamo ci troviamo davanti a lavoratori già senza impiego".

Il segretario della Slc ha chiesto alla Commissione di "trasportare la direttiva europea in maniera corretta anche sul nostro mercato del lavoro perché - ha specificato - gli altri paesi non hanno la stessa migrazione dell'occupazione". L'attuale sistema legislativo "caccia il lavoro buono in favore di quello cattivo: chi rispetta le regole viene espulso dal mercato, prevale chi accede agli incentivi. L'altro risultato è che abbiamo il maggior numero di aziende di call center in Europa: in Italia sono 2.227". C'è poi il nodo della qualità del servizio: "Se peggiora è un problema per tutti - ha spiegato Azzola -: il cittadino vive il call center come un fastidio, anche per la mancanza di regole. Chiediamo una norma per dare un futuro a chi si è appoggiato ai call center da giovane, oggi ha 35 anni, ha fatto famiglia e figli e rischia di perdere l'unica opportunità di lavoro riconosciuta nel nostro paese", ha concluso.

Ha poi parlato Giorgio Serao, della segreteria nazionale della Fistel Cisl. "In Italia sono a rischio circa 10mila posti di lavoro - ha detto -, non è allarmismo sindacale ma proprio un dato di fatto. Tra l'altro, la nostra è un'industria che produce milioni di euro di fatturato, anche per questo va tutelata: troppi lavoratori rischiano il posto e sono lasciati dal governo in condizione di galleggiamento. Servono alcuni interventi legislativi, come sulle gare a massimo ribasso".

Infine il segretario nazionale della Uil Temp, Massimo Servello: "Il contratto di collaborazione a progetto nell'outbound è ormai strutturale. Ma questi lavoratori escono di casa la mattina e tornano la sera, non hanno niente di autonomo: è solo un espediente per scaricare su di loro il costo del lavoro. Va modificata la legge 92/2012, che rende strutturale questo contratto a progetto, altrimenti viene sancito che ci sono lavoratori di serie A e di serie B".