Colpito da una malattia inesorabile, ci ha lasciato Iginio Ariemma. Dopo averlo salutato oggi nella camera mortuaria presso l’ospedale Santa Croce a Cuneo, il 16 gennaio si terrà una giornata dedicata alla sua memoria a Roma, a cura della Fondazione Di Vittorio e dell’associazione Enrico Berlinguer. 

Nato a Torino nel 1941, dirigente politico e giornalista professionista, collaboratore tra l’altro de l’UnitàRinascitaPolitica economia e Critica marxista, Ariemma è stato segretario provinciale della Federazione torinese del Pci e capogruppo al Consiglio comunale. Dal 1976 al 1979 è stato viceresponsabile del Dipartimento economia e lavoro della Direzione del Pci, diretto da Giorgio Napolitano. Dal 1980 al 1983, segretario regionale del Pci e consigliere regionale della Regione Veneto. Dal 1984 al 1987 è stato responsabile nazionale del Partito per la sanità e le politiche sociali, dal 1987 al 1993 responsabile dell’Ufficio stampa e portavoce del Partito (prima del Pci e poi del Pds). Dal 1994 è tornato ad occuparsi di problemi economici e del lavoro come responsabile del Progetto nord per i Ds e dal 2002 è stato coordinatore della Commissione progetto di cui era presidente Bruno Trentin. E del quale diventerà amico prima, fine e studioso e conoscitore poi, coordinando una specifica sezione tematica a lui dedicata nella Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Nel 2002, Ariemma ha promosso con Pietro Scoppola l’associazione “I cittadini per l’Ulivo”, di cui è stato fino al 2007 vicepresidente. Sempre nel 2007, non condividendo le modalità con le quali nasceva il Partito democratico, lasciava l’apparato.

“Mi sono iscritto al Pci nel 1960 dopo le manifestazioni del luglio di quell’anno contro l’ingresso nell’area di governo del Movimento sociale, erede del fascismo, promosso dal premier Ferdinando Tambroni – racconta nel suo ultimo libro Perché sono stato comunista. La ricerca del comunismo democratico –. Avevo quindi già vent’anni. Anch’io partecipai alla manifestazione che si tenne a Torino, se ricordo bene tra piazza Statuto e via Cibrario, con la polizia in armi, schierata a testuggine, per impedire l’avvicinamento alla sede del Msi. La molla è stata dunque l’antifascismo più che il comunismo. Anzi, sul comunismo avevo dei dubbi, nonostante mio padre, militante comunista, portasse a casa regolarmente l’Unità e altri periodici del Partito”. 

“L’adesione al Pci – continua Ariemma – sarebbe stata più difficile se non fossi nato al Lingotto. Il Lingotto, allora, era un quartiere totalmente operaio. La stragrande maggioranza lavorava alla Fiat Lingotto, alla Fiat Avio e alla Fiat di Mirafiori. Era questo anche il destino dei ragazzi, che dopo la scuola professionale si davano da fare per essere ammessi alla scuola degli allievi Fiat. Pochi facevano le medie, e meno ancora erano quelli che frequentavano le medie superiori, il liceo e l’università. Io fui tra questi fortunati. Ogni mattina prendevo il tram che mi portava in venti minuti a scuola in centro. La Fiat determinava la vita del quartiere: orari, comportamenti, la mutua sanitaria, persino i funerali. Il parroco segnalava i comunisti alla direzione aziendale. Il simbolo del Lingotto, per noi che ci abitavamo, oltre all’imponente stabilimento dai grandi finestroni con l’autodromo sul tetto, che ormai veniva utilizzato molto poco, era un trenino che più volte al giorno passava quasi al centro del quartiere portando scocche di automobili dal Lingotto a Mirafiori. E poi c’era la villa ‘Robilant’, una villa settecentesca di notevole bellezza, di stile juvarriano, restaurata dagli operai della Fiat dopo i bombardamenti e le distruzioni della guerra …. Era la sede delle Commissioni interne di fabbrica e aveva il fervore del dopo Liberazione con tantissime attività. Insieme al parco secolare è stato uno dei luoghi più cari della mia infanzia …. Nel 1950 fu inaugurato il nuovo oratorio cattolico, costruito con i finanziamenti della Fiat. In quell’occasione davanti a una folla immensa ricevetti dalle mani dell’arcivescovo, presente Vittorio Valletta, il premio di religione essendo stato il primo del quartiere. Non dissi nulla ai miei genitori che naturalmente vennero a saperlo dopo”.

Il ricordo più forte che conservo della mia infanzia – scriveva Iginio in una lunga e bellissima lettera per il 100° compleanno della sua mamma – è mia madre che, durante la guerra, si getta sopra di me, mi copre, mentre gli aerei, i ‘caccia’, in picchiata, ci mitragliavano. Avrò avuto quattro anni o poco meno. Correvamo mia madre, mio fratello ed io, verso il rifugio situato, se ricordo bene, sulla riva del Po alla confluenza con il Sangone. Era certamente dopo il bombardamento e la distruzione della nostra casa in via Nizza all’angolo con corso Maroncelli. Quel rifugio nello scantinato, dove, a causa delle bombe, restammo sepolti con altri, tra la polvere e le macerie non c’era più; e quindi dovevamo scappare altrove. Coprendoci con il suo corpo la mamma difendeva e proteggeva i suoi pulcini”.

Una mamma, prosegue Iginio, che “da me non ha avuto grandi soddisfazioni. Prevale in me una certa ‘orsaggine’. Ho scelto come mestiere la parola, orale e scritta. Ma nelle relazioni personali la mia impronta non è la parola, ma il silenzio. Con la presunzione di ritenere che chi vive con me e mi è vicino deve capire non soltanto quello che penso, ma anche quello che sento. Non c’è bisogno di esprimersi, di manifestare i propri sentimenti. E questo fin da piccolo …. Non credo che la mamma abbia condiviso buona parte delle mie scelte di vita, ma sicuramente le ha rispettate e umanamente comprese. Anche qui un piccolo episodio, accadutomi negli anni Sessanta, quando già facevo attività politica. Un giorno ritorno a casa con una ferita non leggera alla testa, provocatami, davanti ai cancelli della Mirafiori mentre distribuivo volantini, da una catena di ferro sferrata alle spalle da alcuni ‘fascistelli’, uno dei quali, pace all’anima sua, in epoca berlusconiana, diverrà senatore e viceministro; mia mamma pulisce e sutura la ferita e mi disinfetta e non mi chiede niente. Anche quando, tempo dopo, sullo stipite del portone di casa, appare la scritta cubitale ‘A morte Ariemma’ non dice niente, ma prende secchio e straccio e cancella la scritta. Per questi fatti sono portato a pensare che il rispetto degli altri, la sua umana comprensione sia parte della sua natura. Con tutti, non soltanto con me. Si può essere d’accordo o no, si può condividere o meno le scelte altrui, ma in ogni caso vanno rispettate, a meno che siano dei soprusi o delle sopraffazioni. E soprattutto se c’è qualcuno che domanda una mano, che si trova in difficoltà, che ha più bisogno di te, va aiutato”.

Ritroviamo in queste poche righe l’uomo che noi tutti abbiamo imparato a conoscere e amare: una persona colta, generosa, partecipante e partecipativa, resistente e militante, un compagno e amico, un marito, un padre, un nonno legatissimo alla sua famiglia alla quale va il nostro più affettuoso abbraccio.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale