Hans George Gadamer aveva quasi 100 anni quando ho avuto il privilegio di ascoltarlo “live” a Palazzo Serra di Cassano, sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Sì, vi assicuro che l’ho sentito con le mie orecchie affermare, nel corso della sua indimenticabile lecture, che se avesse dovuto scegliere le due parole due che più delle altre avevano segnato il ‘900 avrebbe scelto “Pazienza” e “Lavoro”. Sì, pazienza e lavoro. Non ricchezza, democrazia, libertà, guerra. Pazienza. E lavoro.

Sono trascorsi un po’ di anni, sono successe tante cose, il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti, l’iPod e l’iPad, l’Enciclopedia del Dna e l’uomo bionico alle porte; eppure talvolta penso che se a Gadamer potessimo fare la stessa domanda oggi lui direbbe che la pazienza forse no, ma il lavoro continuerà ad essere per lui una parola importante.

Perché lo penso? Perché è attraverso il lavoro che la maggior parte delle persone soddisfa i propri bisogni materiali, partecipa al processo di creazione della ricchezza, costruisce il proprio futuro. Perché il lavoro è anche un valore, un bisogno in sé, un elemento costitutivo dell’identità delle persone, parte fondamentale della loro possibilità-capacità di organizzare la propria vita in un sistema di valori riconosciuto e di soddisfare le proprie aspettative di futuro non solo dal versante economico ma anche da quello culturale e sociale. E perché queste due cose qui continueranno a essere importanti, anche nel secolo di internet e dell’ingegneria genetica.

Certo che lo so che il lavoro sta cambiando, faccio parte della generazione under 60, quella che ha avuto padri che hanno trascorso 35-40 anni di lavoro nello stesso posto, impegnati in attività lavorative stabili, prima fiduciosi nella possibilità di migliorare la propria condizione sociale e poi contenti di avercela fatta anche solo perché avevano potuto affittare una casa più grande e avevano potuto mandare i figli a scuola, farli diplomare e/o laureare; quella generazione che, invece, ha figli, diplomati e laureati, destinati, quando va bene, a cambiare dieci lavori alternandoli a periodi di inoccupazione, di apprendimento o anche, nei casi più fortunati, di svago. Penso semplicemente che nonostante i cambiamenti il lavoro continuerà ad essere importante, a dare senso e significato alle nostre vite. E aggiungo che per questo il lavoro dovrebbe essere la prima preoccupazione delle nostre classi dirigenti. Ma anche da questo versante c’è tanto lavoro da fare.