Negli ultimi trent’anni, in Italia, la casa da diritto si è trasformata in un problema sociale. La crisi degli alloggi ha assunto aspetti di strutturale cronicità, con dinamiche che in numerosi casi hanno avuto esiti drammatici. Emergenza casa, sfratti, occupazioni abusive sono temi all’ordine del giorno sulle pagine dei quotidiani. Eppure di case vuote nel nostro paese ce ne sono molte. Per rendersene conto basta fare un giro per le periferie, dove non è difficile imbattersi in schiere di palazzi appena ultimati o in cantieri edili ancora all’opera. Sono migliaia di appartamenti, magari superaccessoriati e rispettosi delle norme ambientali, che però resteranno privi di inquilini perché sono sempre di più le persone che non hanno la possibilità economica di acquistarli o di pagare l’affitto ai costi di mercato.

Come spiegare un simile paradosso? A chi è in capo la responsabilità di un mercato immobiliare che marginalizza centinaia di migliaia di persone? Quali politiche possono essere messe in campo per arginare il fenomeno e garantire alle fasce di popolazione maggiormente penalizzate l’esigibilità del diritto alla casa? Questioni complesse e controverse che Gaetano Lamanna affronta nel libro La casa negata. Questione abitativa e trasformazioni urbane, (Roma, Ediesse, 2015, pp. 142, euro 10,00) e per la soluzione delle quali delinea un piano di intervento preciso e dettagliato.

Lamanna, dirigente sindacale ed esperto di politiche della casa, non ha dubbi: il primo responsabile di questa situazione va cercato nella grande rendita che attraverso il processo di “finanziarizzazione del mattone”, ovvero l’investimento nella casa come forma privilegiata di risparmio, ha fatto sì che l’idea dell’abitare fondata sulla proprietà, e quindi sulla conseguente crescita del valore degli immobili, diventasse prevalente nel nostro paese rispetto a quella basata sulla locazione. Sotto questa spinta continua e potente, la casa ha via via perso il suo valore d’uso a tutto vantaggio del suo valore di scambio, andando ad alimentare le rendite da capitale sotto forma di mutui o alti canoni di locazione.

Secondo questa logica sono stati costruiti migliaia di alloggi residenziali, processo che ha generato un mercato immobiliare che non tiene in alcun conto le esigenze e i bisogni delle fasce di popolazione con redditi medio-bassi che non hanno né la possibilità di acquistare direttamente una casa, né di accendere mutui, né di trovare alloggi in affitto a prezzi sociali. Senza contare la condizione di coloro che, gravati da mutui onerosi, a causa della crisi iniziata nel 2008 non riescono più, o ci riescono con grande difficoltà, a fare fronte agli impegni di pagamento con le banche. A dimostrazione di come la casa, ormai, sia un affare soltanto per gli speculatori e la grande rendita, mentre per i normali cittadini si sta trasformando sempre più in un onere insostenibile.

Eppure, in una spirale perversa, si continua a costruire e a consumare suolo, senza riuscire minimamente a dare risposte concrete alla questione abitativa. Perché si privilegia l’aspetto residenziale, che garantisce rendita, e si tralascia l’aspetto sociale della questione (che fine hanno fatto, ad esempio, i piani di edilizia popolare pubblica?); perché la “città privata” ha relegato la “città pubblica” sempre più ai margini; perché l’edilizia, in particolare quella speculativa, ha fagocitato l’urbanistica e affossato qualsiasi idea di ricomposizione delle città. Complici, spesso, le istituzioni e gli enti locali, strozzati dalla mancanza di risorse, dai tagli di Ici e Imu, e costretti a sopportare il “ricatto” della grande impresa immobiliare, la quale in cambio del pagamento di esigui, quando inconsistenti, oneri di urbanizzazione è riuscita a imporre condoni edilizi, revisioni di piani regolatori, cambi di destinazione d’uso, aumenti di cubatura e così via.

Il quadro messo in luce dal libro è sconfortante. Eppure secondo Gaetano Lamanna le soluzioni ci sarebbero. Innanzitutto, servirebbe un ribaltamento delle convinzioni consolidate: tornare a privilegiare la locazione piuttosto che la proprietà. Attraverso interventi di recupero di alloggi invenduti, di risanamento di aree dismesse o abbandonate, di ristrutturazione, laddove fosse possibile, di appartamenti abitati da anziani, molto spesso sovradimensionati rispetto alle effettive esigenze di questi ultimi, si potrebbero creare nuovi spazi abitativi da destinare a giovani coppie o a persone singole non in grado di sostenere prezzi di mercato troppo alti. Si tratterebbe di orientare la scelta verso la “manutenzione” del patrimonio immobiliare esistente per contrastare la “politica dell’espansione” e della cementificazione a ogni costo, riaffermando il primato dell’interesse pubblico su quello privato e rimettendo in moto un processo di redistribuzione, sebbene parziale, delle risorse.

Rifuggendo da facili scorciatoie quali l’housing sociale – rivelatosi uno strumento che invece di garantire affitti a costi calmierati ha favorito prevalentemente l’espandersi dell’edilizia residenziale e gonfiato le tasche dei costruttori – o il cohousing – che al di là delle buone intenzioni di quanti lo professano rischia di tradursi in una nuova ghettizzazione, in particolare degli anziani, e sul quale già puntano l’attenzione speculatori e operatori immobiliari –, Lamanna afferma con convinzione la necessità di ripensare completamente la questione abitativa: “Occorre superare un’impostazione che considera la politica abitativa un fatto residuale, nell’ottica ristretta dell’aiuto alle famiglie in difficoltà, da risolvere con un fondo sociale, magari un poco più rimpinguato, e non invece, una questione che chiama in causa direttamente la politica urbanistica e quella fiscale”.

Non basta quindi agire sulla disponibilità di alloggi, ma occorre intervenire per migliorare complessivamente la qualità del vivere in città. Riqualificare le periferie degradate, difendere il territorio, riorganizzare le funzioni urbane, ridisegnare il sistema dei trasporti, riorganizzare i servizi pubblici, riformare il sistema della fiscalità territoriale sono le sfide che le istituzioni, locali e nazionali, sono chiamate ad affrontare per ripensare un modello inclusivo di città, che rimetta al centro gli interessi collettivi pubblici e limiti il potere e la discrezionalità della grande rendita speculativa.