Oggi, 30 gennaio, i lavoratori del credito fanno sciopero e manifestano in quattro città: Milano, Roma, Palermo e Ravenna (quest’ultima, città del presidente dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana). Lo sciopero è frutto di una stagione difficile per la categoria. I lavoratori hanno sopportato in questi anni fusioni tra banche, riorganizzazioni, riduzione degli organici, cambi dei vertici, di modello produttivo e distributivo.

I bancari hanno progressivamente visto ridursi l’efficacia del proprio ruolo nell’economia reale e, come se non bastasse, a completare questo scenario, la categoria ha subito la disdetta del contratto collettivo e dal 1° aprile rischia di rimanere senza. I lavoratori delle banche scioperano contro chi pensa che la contrattazione nazionale sia superata, contro chi pensa di ridurre salario e diritti, contro chi in pochi anni di lavoro accumula compensi milionari. I bancari scioperano in favore di un sistema creditizio al servizio del paese.

L’economia italiana continua ad affondare nel mare della globalizzazione e i banchieri reagiscono alternando grida a lamentele verso i marinai che non remerebbero con sufficiente foga. La verità è che siamo nel bel mezzo di una crisi strutturale. La potremmo chiamare la decrescita infelice: abbiamo perso 10 punti di prodotto interno lordo; 150 miliardi, in meno di ricchezza prodotta; 60 imprese chiudono ogni giorno, la produzione industriale si è ridotta del 25 per cento e i margini di redditività per le nostre banche sono ai minimi storici. Abbiamo accumulato un drammatico meno un milione e mezzo di posti di lavoro, con i giovani senza lavoro che sono ormai al 44 per cento.

Le sofferenza bancarie sono passate dai 27 miliardi del 2007 ai 181 del 2014. Le banche stanno reagendo riducendo, indistintamente, il credito concesso a famiglie e imprese, meno 90 miliardi in quattro anni, e compensando i mancati ricavi spingendo sulle commissioni, quindi aumentando i costi. I tassi d’interesse applicati sul credito che ancora viene erogato sono più alti della media europea di un punto percentuale. Dimenticano, i banchieri, che sono parte della causa e al tempo stesso dell’unica soluzione possibile: investimenti e, quindi, occupazione. Un parte importante la deve necessariamente fare lo Stato (Europa), un’altra le imprese, un’altra ancora le banche. Solo un’azione congiunta di questi tre soggetti, con l’appoggio delle forze sociali, potrà determinare la necessaria inversione di tendenza.

L’Abi, invece di scatenare e alimentare il conflitto interno al settore, dovrebbe impegnarsi per superare le attuali penalizzazioni che colpiscono le banche italiane a livello europeo. I banchieri invece scelgono la strada più corta: ridurre l’occupazione e i salari dimostrandosi poco lungimiranti. Dal canto loro, i lavoratori del credito in questi anni hanno seguito la via della solidarietà e dell’innovazione, cercando di coniugare l’aspetto generale con gli interessi della categoria. Nella piattaforma per il rinnovo del contratto che l’Abi ha preferito rispedire al mittente era contenuta una proposta “per un modello di banca al servizio del paese”, nella quale i bancari avrebbero fatto la loro parte.

Non discuterne è stata un’occasione persa. Un atto di superficialità imperdonabile per chi è a capo di istituzioni che hanno forma giuridica privata, ma svolge un’attività di interesse pubblico, anche mediante il risparmio che la nostra Carta costituzionale tutela. Di servizio al paese non c’è traccia nelle modalità con cui i banchieri si stanno approcciando all’economia reale e al contratto nazionale di categoria. Per questo i lavoratori del credito scioperano: per difendere il ruolo che storicamente hanno sempre avuto nel processo economico. Per difendere il ccnl, che è garanzia di stabilità nei diritti e del salario. Per contrastare l’idea di una contrattazione aziendale e/o individuale basata su incentivi alla vendita.

La volontà del sindacato
di avere un ccnl forte è facilmente comprensibile, se si guarda all’andamento delle retribuzioni contrattuali e di fatto nella categoria. Negli ultimi 15 anni il contratto di lavoro è riuscito a difendere il salario, mentre il secondo livello di contrattazione a partire dalla crisi si è ampiamente ridimensionato: meno 12 punti percentuali dal 2008 al 2014, con la produttività che è costantemente cresciuta e le condizioni di lavoro peggiorate.

È in questo contesto che si inserisce l’iniziativa di lotta dei lavoratori del credito. Obiettivo, riprendersi il contratto nazionale di lavoro. Come mostra una delle locandine della riuscitissima campagna di comunicazione della Fisac: tanti piccoli pesci, i bancari, insieme possono riuscire a far paura anche al pescecane, il banchiere.