Le parole con cui Monti ha ritenuto di liquidare il contributo della concertazione alla storia economica e sociale italiana non rivelano soltanto la cultura politica e le idiosincrasie di un rappresentante idealtipico del neoliberismo odierno. E volendo neppure l’ingenerosità, se non anche una stucchevole ignoranza dietro al giudizio, come pure da più parti gli è stato fatto notare. Esse testimoniano in modo sintomatico e inequivoco l’indirizzo preponderante che orienta buona parte della tecnocrazia che controlla questa tumultuosa stagione della storia europea.

Non era stato Draghi a presagire la fine del modello sociale europeo? Tale indirizzo si fonda sulla scelta a suo modo coerente di adottare obiettivi, tempi e procedure che di fatto vanificano ogni residua possibilità di fare ricorso a quelle modalità concertate del processo deliberativo, che fino a tempi recenti avevano indotto a parlare di revival neo- corporativo (Crouch). Un’analisi che sul finire degli anni ’90 alludeva alla sorprendente ripresa del metodo dei patti sociali, sulla falsariga di quanto già avvenuto nei paesi nordici nel secondo dopoguerra ma, si notava, con un paio di importanti differenze.

La prima è che diversamente che in passato, tali accordi riguardavano ora paesi privi delle condizioni ritenute propedeutiche a quel modello di scambio politico (monopolio e centralizzazione della rappresentanza, vincoli rigidi al conflitto, approccio partecipativo). Contrariamente a quella modellistica un po’ scolastica (Schmitter), erano ora paesi come la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo, la Grecia e l’Italia a dare vita a questa nuova stagione di patti, seguiti da quelli che nei nuovi stati membri accompagneranno la transizione democratica. La seconda differenza col neocorporativismo storico risiedeva nel carattere non di rado “simbolico” di tali intese, miranti ad assicurare più una legittimazione reciproca fra gli attori – specie governi e sindacati, indeboliti dalla globalizzazione – che non la condivisione di obiettivi acquisitivi, tipo piena occupazione, alti salari e welfare espansivo.

Oggi anche i margini per questo secondo tipo di scambio appaiono compromessi dal modello di governance che le istituzioni europee hanno deciso di perseguire. Specie nei paesi più duramente colpiti dalla crisi del debito e dalla recessione, gli stessi che più degli altri si erano distinti per la volontà di ricorrere al metodo dei patti sociali. Ora l’unica legittimazione che conta è quelle dei mercati, a fronte della quale persino quella democratica può costituire un intralcio.

Figurarsi quella delle parti sociali. Quando scoppia la crisi, tutti i sindacati si pongono in una posizione di responsabilità, disponendosi a collaborare alla ricerca di soluzioni relativamente condivise e socialmente sostenibili. La situazione però precipita nel 2009, quando appare chiara la scelta europea e dei governi di usare la crisi per porre mano a uno stravolgimento epocale degli assetti che avevano fin lì retto welfare e relazioni industriali. A quel punto non vi sono più spazi di manovra e uno dopo l’altro si rompono tutti gli equilibri che sino alla costituzione dell’Uem avevano ispirato i patti sociali nazionali. Il loro numero crolla ovunque. I sindacati spagnoli e portoghesi, che ci proveranno fino all’ultimo, non reggono alla più sconvolgente ondata di misure anti-labour dai tempi della dittatura. Ad aprile 2010 la Troika chiede e ottiene dalla Grecia il taglio del salario minimo legale e la riduzione del 25% dei salari pubblici; la contrattazione nazionale viene praticamente abrogata.

Due mesi dopo ricetta analoga per la Romania. A febbraio 2011 l’Irlanda è chiamata a tagliare dell’11% il salario minimo e del 20% quello dei pubblici. Il capo del sindacato, moderato ed europeista, definisce “criminali di guerra” i funzionari Ue. Nel frattempo il nuovo patto Euro Plus (poi Fiscal Compact) punta, con inediti automatismi sanzionatori, a ridurre debito e deficit a un ritmo che per l’Italia dovrebbe comportare tagli del 3% l’anno, pari a circa 48 miliardi. Spesa sociale e contrattazione sono nel mirino e per i salari la troika chiede di attenersi alle sole dinamiche della produttività e non anche a quelle dell’inflazione. A giugno si chiede al Belgio di modificare il suo sistema, giudicato troppo rigido, di indicizzazione salariale. Scala mobile addio anche a Cipro. Il governo spagnolo, che stava concertando su un progetto di riforma, viene indotto a rompere coisindacati e a smobilitare, insieme ad altro, ciò che resta del contratto nazionale.

In Italia si firma il 28 giugno anche per non fare quella fine. Ma ad agosto tocca comunque a noi, con l’ormai famigerata lettera della Bce. In un anno l’Italia fa i compiti a casa e riforma contrattazione, pensioni, pareggio in bilancio, mercato del lavoro. Vara una spending review lacrime e sangue e infine vota il fiscal compact. In nessuno diquesti casi il governo sceglie di avvalersi del metodo concertativo, generando nel fronte sindacale uno spiazzamento che ha finora fatto fatica a tradursi in azioni di contrasto all’altezza della gravità dell’assedio. Leggi e contratti attenuano i costi umani della crisi ma la contrattazione collettiva è ovunque sulla difensiva, con accordi di stampo concessivo, un decentramento sempre più spinto, una copertura ridotta dal blocco dell’estensione dell’efficacia (Portogallo), dall’aziendalizzazione (Fiat e art. 8) dall’individualizzazione dei rapporti di lavoro. Si liberalizzano i licenziamenti e si restringe il diritto di sciopero (Belgio).

I sindacati, marginalizzati nelle decisioni politiche, vengono depotenziati nei luoghi di lavoro (Portogallo, Romania) e decurtati del sostegno indiretto pubblico (Spagna). In questo scenario fosco, che insieme alla concertazione mortifica le istituzioni della democrazia rappresentativa, le ragioni di ottimismo non sono molte. Hollande si dichiara favorevole al metodo concertativo, ma avallando il Fiscal Compact non si vede cosa potrà chiedere e ottenere dai sindacati. Ambienti governativi lavorano già a uno shock di competitività da 30-50 miliardi, moltocentrato sul costo del lavoro.

La Germania apre finalmente i margini per incrementi salariali che potrebbero fungere da volano per la domanda. Basterà a invertire il trend? I socialdemocratici non paiono intenzionati a modifiche di rotta sostanziali. L’elettorato non glielo consentirebbe e le recenti dichiarazioni di Steinbruck non fanno presagire nulla di buono. Il ritorno del centrosinistra qui e in Italia potrebbe certamente produrre un progresso, ma è bene non farsi troppe illusioni. Grecia, Spagna, Portogallo e Regno Unito erano retti tutti da monocolori socialisti quando hanno dovuto mettere mano, sotto ricatto, alle riforme richieste. Sappiamo com’è andata a finire. Ovunque monta, e monterà ancora, la rabbia popolare contro l’austerity.

Nella traversata nel deserto che abbiamo intrapreso sarà bene quanto meno rinsaldare i ranghi con la propria gente sofferente. E non è detto che da ciò non possa derivarne quella rivitalizzazione che in questi anni si è cercata nei pur necessari adattamenti organizzativi e nella legittimazione dall’alto dei tavoli concertativi.