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1. Il testo dello «Statuto dei diritti dei lavoratori» (legge 20 maggio 1970, n. 300) oggi vigente risulta dalle non poche, e talvolta significative, modifiche che sono state portate da leggi successive o da referendum popolari abrogativi. Vediamo più da vicino il significato che assumono le diverse norme di questo stesso Statuto, o almeno le più rilevanti tra di esse, nel quadro complessivo dell’ordinamento giuridico e del sistema costituzionale, politico e sindacale.
Confluiscono nello Statuto dei Lavoratori differenti ispirazioni, che lo Statuto stesso provvede ad armonizzare in modo coerente. Da un lato, ci si preoccupa di assicurare al lavoratore, considerato anche come singolo, l’esercizio effettivo dei diritti consacrati, talvolta anche con riguardo a tutti i cittadini, dalla Carta costituzionale. D’altro lato, ben consapevoli che la pura e semplice tutela legislativa può non essere sufficiente a garantire l’effettività dell’esercizio dei diritti, ci si premura di assecondare una piena cittadinanza del sindacato nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro, promuovendo e sostenendo con puntuali disposizioni di legge almeno i più importanti tra gli strumenti di cui il sindacato medesimo può disporre.
Fondendo tra loro queste due direttrici di carattere politico, si perviene così, per un verso, a tradurre sul piano della concretezza dell’agire quotidiano i princìpi enunciati dalla Costituzione repubblicana (e dunque lo Statuto è una legge di attuazione costituzionale), mentre, per altro verso, li si rafforza e li si rende più realisticamente esigibili inserendo in modo pressoché sistematico la dimensione dei diritti dei singoli in quella dell’azione collettiva. Cosicché di questo Statuto dei lavoratori diviene possibile una lettura e un’interpretazione unitaria.
Questo profilo unitario e di carattere sistematico trova, d’altra parte, la sua radice in quegli stessi e fondamentali capisaldi che si rintracciano, ad esempio, sia nell’articolo 2 che nell’articolo 3 della Costituzione, là dove si afferma che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», e che è compito della Repubblica medesima «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».
Ma vengono in rilievo, sempre a fondamento dell’ispirazione dalla quale muove lo Statuto dei lavoratori, anche altri princìpi costituzionali, quale quello che, dopo avere riconosciuto la libertà dell’iniziativa economica privata, afferma che essa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana» (art. 41).
Trovano in tal modo la loro radice più immediata, ad esempio, quelle norme dello Statuto dei lavoratori che garantiscono la libertà di opinione nei luoghi di lavoro (art. 1), limitando di conseguenza e circondando di garanzie l’uso delle guardie giurate, del personale di vigilanza, degli impianti audiovisivi di controllo a distanza, le visite personali di controllo e gli stessi accertamenti sanitari (articoli da 2 a 6); mentre, per parte sua, nell’articolo 8 il legislatore – memore delle pratiche poliziesche da tempo invalse anche in grandi fabbriche: le «schedature» e i «reparti confino» alla Fiat ecc. – vieta l’effettuazione di indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali, «nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore». I valori collegati alla professionalità sono, per parte loro, rivendicati e difesi dall’articolo 13 (oggi art. 2103 del codice civile).
Già trattando di questi istituti (specie in tema di esercizio dei poteri di controllo da parte dell’imprenditore mediante impianti audiovisivi o visite personali), ma anche a proposito dell’effettività del contraddittorio in tema di sanzioni disciplinari (art. 7) e della tutela della salute e dell’integrità fisica, che i lavoratori possono condurre mediante loro rappresentanze (art. 9), risalta, sia pure in modo non del tutto sistematico, la presenza del sindacato. Questa presenza viene però organicamente sistematizzata assumendo come perno dell’intera disciplina la garanzia, assicurata «a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro», di poter «costituire associazioni sindacali, aderirvi e svolgere attività sindacale» (art. 14).
Questo diritto, così fondamentalmente, ma anche genericamente garantito dalla norma ultima citata, viene poi ulteriormente specificato in quel notissimo articolo 19, che, scavando più a fondo nel medesimo terreno già dissodato dall’articolo 14, prevede, assai più in specifico, che in ogni unità produttiva possano essere costituite rappresentanze sindacali aziendali (Rsa), a iniziativa dei lavoratori, nell’ambito (oggi risultante dal referendum popolare dell’11 giugno 1995) delle associazioni sindacali «che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicabili nell’unità produttiva». Poco importa che, oggi, in seguito ai protocolli nazionali di intesa degli anni novanta, a queste Rsa (originariamente intese come terminali nelle aziende delle singole organizzazioni sindacali) si siano progressivamente affiancate, e in prospettiva si stiano quasi del tutto sostituendo, le rappresentanze sindacali unitarie (Rsu), intese quali organismi rappresentativi, e come tali elettivi, di tutti i lavoratori, compresi i non iscritti: ciò che conta davvero è il fatto che a questi organismi, nonché ai loro dirigenti o ai loro componenti, competano i più significativi tra i cosiddetti «diritti sindacali»: come l’assemblea (art. 20), il referendum (art. 21), il diritto di affissione e quello di godere di determinati locali (artt. 25 e 27); ovvero – per quel che riguarda i singoli sindacalisti che ne fanno parte – i permessi retribuiti e non retribuiti (artt. 23 e 24). Mentre altri permessi retribuiti vengono corrisposti ai dirigenti provinciali e nazionali delle organizzazioni sindacali (art. 30), e si sanciscono altresì specifiche aspettative per ogni lavoratore chiamato a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire cariche sindacali provinciali o nazionali (artt. 31 e 32).
2. All’interno di questo quadro complessivo – che, come vedremo, è stato oggetto, negli anni, di notevoli specificazioni e ampliamenti – si collocano più specifiche previsioni, nelle quali convergono con notevole coerenza le direttrici politiche già segnalate (come dire: garanzia dei diritti individuali e libertà e poteri «collettivi»). Così, dicasi, ad esempio, del divieto di atti discriminatori posti in essere per motivi sindacali, politici, religiosi, razziali, di lingua o di sesso (art. 15), o anche dei divieti di «sindacati di comodo» (sostenuti in qualunque modo dai datori di lavoro: art. 17) e dei trattamenti economici collettivi di maggior favore aventi quel medesimo carattere discriminatorio di cui ora si è parlato (art. 16). Dell’insieme di questi diritti si fanno carico, a ben vedere, due altre previsioni tra loro assai diverse – anche perché vertenti, rispettivamente, sul piano del diritto sostanziale e di quello processuale –, ma, nella sostanza, unificate da tratti finalistici non tra loro difformi: gli articoli 18 e 28. In essi non è difficile ravvisare l’architrave, o la chiave di volta, dell’intero edificio: ovvero, potremmo anche dire, le condizioni che rendono (o possono rendere) davvero credibile la stessa e complessiva enunciazione di diritti fino ad ora compiuta.
L’articolo 18, come sappiamo, integra e completa la disciplina già prevista dalla legge n. 604/1966, prevedendo che il giudice, quando rilevi l’inefficacia di un licenziamento ovvero ne dichiari la nullità oppure lo annulli perché intimato senza giusta causa o giustificato motivo, non si limiti a sancire un puro e semplice risarcimento dei danni in caso di mancata riassunzione, ma ordini al datore di lavoro – imprenditore o non imprenditore, e quando ricorrano le dimensioni aziendali indicate dalla legge – di «reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro». È ormai pressoché comune il riconoscimento che non si tratta, qui, soltanto di una più forte o più rigida difesa del posto di lavoro: non, ovviamente, che tale difesa acquisti minore importanza, ma è certo che l’uso dello strumento della reintegra (o anche solo la possibilità di tale uso) fa sì che il lavoratore riacquisti quella libertà di rivendicazione dei propri diritti – e di rivendicazione, se necessario, anche in giudizio –, che altrimenti, di fronte alla minaccia di un licenziamento, e quindi della perdita del posto di lavoro e con esso della perdita dell’unica fonte di reddito per sé e la propria famiglia, viene inesorabilmente meno.
«Il potere sul mio pane – ha scritto recentemente uno dei più illustri esponenti del pensiero politico liberale – è, ovviamente, un potere sulla mia volontà». D’altra parte, non è un caso che, là ove le dimensioni aziendali non consentano l’uso del potere di reintegra, gli stessi indici di sindacalizzazione crollino in modo verticale: dunque non sono soltanto le libertà individuali, ma è anche la libertà sindacale a essere minacciata da un’eventuale abrogazione (o sospensione che sia) della possibilità della reintegra.
Non può neppure pensarsi che una pratica abrogazione di questa così particolare sanzione che è la reintegra possa legittimamente riguardare, come si propone nelle ipotesi elencate nel disegno di legge delega governativo, soltanto determinate categorie di lavoratori: che, ad esempio, modificano le proprie condizioni di lavoro perché «passano» a tempo indeterminato, ovvero emergono dal «nero» o realizzano, mediante la loro assunzione, più ampie dimensioni dell’azienda. Infatti – anche a voler tacere di altre possibili obiezioni: ad esempio, dal «nero» già si esce, o si può uscire, mediante i cosiddetti contratti di riallineamento, e via dicendo – sarebbe per lo meno di dubbia costituzionalità un diseguale trattamento tra soggetti che si trovano in eguali condizioni di lavoro, e la cui differenziazione di tutela verrebbe a dipendere da eventi, magari non esclusivamente riferibili ai soggetti stessi, del tutto estranei ed estrinseci.
Peggio: secondo il rammentato disegno di legge delega, la cancellazione dell’istituto della reintegra diverrebbe, almeno potenzialmente, addirittura totale, quando sulla legittimità del licenziamento fosse chiamato a pronunciarsi un collegio arbitrale: collegio, per di più, che lo stesso testo governativo, riducendo a pura e astratta eventualità l’intervento dell’organizzazione sindacale, configura come fondamentalmente affidato, quanto alla sua costituzione e operatività, alla diretta volontà delle parti (e dunque, in pratica, alla volontà del più forte). La decisione degli arbitri dovrebbe poi essere resa secondo equità, e potrebbe venire impugnata soltanto per vizi procedimentali: non, dunque, anche per violazione di disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo. In tal modo – e in qualche maniera rifluendosi dallo specifico istituto del licenziamento individuale a quasi tutta la disciplina del rapporto di lavoro – verrebbe in pratica annichilita la stessa nozione di indisponibilità dei diritti derivanti da norme inderogabili, e dunque l’inderogabilità stessa. Come dire: un superamento «all’indietro» di quasi tutto il diritto del lavoro, ricondotto a una matrice pressoché integralmente di tipo (più che liberale, addirittura e soltanto) liberista.
Ecco, quindi, le conseguenze devastanti su gran parte dell’ordinamento lavoristico che possono derivare dall’abrogazione (anche se mascherata come una temporanea sospensione) «solo» dell’istituto della reintegra. Istituto il cui rilievo non è, dunque, tanto misurabile in termini di applicazione quantitativa, quanto in termini di potere da un lato, e di libertà dall’altro. Di qui la sua centralità.
L’altra norma, che poco fa si qualificava come ulteriore chiave di volta dell’intero edificio dello Statuto, è il ricordato articolo 28: cioè la procedura per la repressione della condotta antisindacale, già tante volte sperimentata utilmente in giudizio di fronte a comportamenti «diretti a impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale, nonché del diritto di sciopero».
3. Quanto abbiamo fin qui esposto non significa, ovviamente, che lo Statuto dei lavoratori possa qualificarsi come un blocco di norme non suscettibile di modifiche, integrazioni di vario tipo o di sue espansioni. La storia ci insegna, infatti, il contrario. Sono state abrogate (o comunque superate) dalla legislazione successiva, per esempio, le norme contenute originariamente nel Titolo V in tema di collocamento.
Così, la stessa tutela antidiscriminatoria, originariamente limitata a determinate «causali» di natura esclusivamente sindacale, è stata estesa, come già abbiamo detto, agli atti di rappresaglia diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso (e in tale direzione ulteriori sviluppi sono stati realizzati dalle leggi 903/1977 e 125/1991, e da ultimo, con la legge 135/1990 per la prevenzione e la lotta contro l’Aids). Mentre, per altro verso, l’intero Statuto dei lavoratori è stato reso applicabile, con la «privatizzazione» di settori importanti del pubblico impiego, «alle pubbliche amministrazioni, a prescindere dal numero dei dipendenti» (art. 55 del dlgs 29/1993).
Neppure potremmo astrarci, nell’esame del testo di cui parliamo, dall’evoluzione del più complessivo sistema delle relazioni industriali: già lo si è visto, infatti, in tema di progressiva attribuzione alle Rsu dei diritti, delle prerogative e delle tutele già attribuite alle Rsa. Va poi considerato, sempre a proposito del valore intrinseco e delle capacità espansive dei princìpi contenuti nello Statuto, l’accoglimento di molti di questi princìpi nello stesso testo della cosiddetta Carta di Nizza: dagli articolatissimi divieti di discriminazione, ai diritti dei lavoratori all’informazione e alla consultazione, fino al diritto di negoziazione e di azioni collettive: con particolare riguardo al diritto alla «tutela contro ogni licenziamento ingiustificato». Altro che, dunque, quel presunto «isolamento» internazionale (o europeo) dei princìpi sui quali si fonda il nostro Statuto dei lavoratori, di cui altri va parlando o scrivendo a ogni pie’ sospinto!
Ma possono, e forse debbono, configurarsi anche altre possibili modificazioni. Maggiori flessibilità – da intendersi in direzione bilaterale, e dunque non nell’interesse della sola impresa, ma anche degli stessi lavoratori – possono pensarsi a proposito della variabilità delle mansioni, indotta anche dall’uso delle più moderne tecnologie. Da questo punto di vista, verrebbe in discussione l’attuale articolo 13 dello Statuto (trasfuso, come si è visto, nell’articolo 2103 del codice civile). Maggiore importanza, però, dovrebbe venire attribuita al perfezionamento dello stesso profilo «collettivo», ovvero del sostegno della presenza e dell’attività sindacale.
Lo Statuto non si occupa in alcun modo, infatti (proprio perché commisurato, nel 1970, a una situazione assai lontana dalle crisi di rappresentatività che hanno invece caratterizzato gli anni novanta), dell’effettiva democraticità dei rapporti tra rappresentanti e rappresentati (come dire: dei rapporti tra organizzazione sindacale e lavoratori). Tema oggi risolto dalla legge per il settore pubblico «privatizzato» (il già rammentato dlgs 29/1993 con le successive modificazioni), ma non ancora – e malgrado se ne avverta ogni giorno di più la necessità, specie di fronte alla minaccia e (purtroppo) alla realizzazione di accordi separati – per quello privato.
Quanto, infine, al profilo degli stessi diritti dei singoli, è proprio la fioritura di nuove figure contrattuali improntate ad esigenze (quando siano genuine) di maggiore autonomia, che induce la necessità di meglio definirle e di estendere a codeste figure gradi variabili di tutele, incardinate comunque sul carattere universale di quelle che sono da ritenersi davvero fondamentali.