L’intento di questo articolo è quello di esporre i risultati della ricerca “Lavoro e legalità. Il punto di vista degli uffici vertenze della Cgil in Emilia-Romagna e in Veneto”, promosso dagli Ires delle due regioni, all’interno del più ampio percorso di ricerca denominato “LEGAL_frame_WORK – Lavoro e Legalità nella società dell’inclusione” (Prin 2010‐2011), coordinato dall’Università degli Studi di Verona e partecipato da numerosi atenei italiani (1).

La scelta metodologica ha visto entrambi gli istituti privilegiare un’indagine di tipo qualitativo, attraverso interviste semi-strutturate, che hanno coinvolto oltre venti tra responsabili degli uffici vertenze e funzionari sindacali. La motivazione riguarda, invece, da un lato l’assenza di una raccolta sistematica da parte degli uffici vertenze, dall’altro la volontà di privilegiare una descrizione “densa” del fenomeno capace di evidenziare i meccanismi che generano e sostengono la diffusione delle illegalità sul lavoro. Per questo fine è stato coinvolto un ampio spettro di categorie sindacali, ricalcando quindi non solo la volontà di indagare i diversi settori, caratterizzati da specifiche e differenti forme illegalità, ma anche di ricercare nelle molteplici articolazioni una logica comune capace di disegnare i profili di un fenomeno in drammatica espansione.

QUALE ILLEGALITA’ E QUALE LAVORO. GLI EFFETTI DELLA CRISI
Il nesso tra lavoro e legalità non può essere esplorato al netto dell’impatto che la crisi produce sia sul versante delle aziende, sia dei lavoratori. Se infatti da un lato la crisi ha ristretto le opportunità di impresa, intensificando la concorrenza e spingendo le aziende a ricorrere sempre più spesso a rapporti di lavoro parzialmente o totalmente illegali, con l’obiettivo esplicito di ridurre il costo del lavoro, dall’altro lato essa ha innalzato la soglia di tolleranza tra i lavoratori contribuendo a diffondere la falsa credenza che forme di illegalità siano addirittura necessarie ad “oliare” i meccanismi dell’economia.

La crisi all’interno della ricerca costituisce dunque molto di più di un semplice elemento di sfondo, ma è una variabile cruciale nella diffusione di pratiche oltre i limiti di legge e nel coinvolgimento di parti sempre più ampie di società. Tuttavia le interviste raccolte fanno emergere chiaramente anche una trasformazione delle forme di illegalità rispetto al passato. Mentre prima della crisi la maggior parte delle vertenze riguardavano tematiche più strettamente contrattuali, come ad esempio l’applicazione errata degli inquadramenti contrattuali, provvedimenti disciplinari oppure licenziamenti senza giusta causa, oggi le questioni più frequenti hanno a che fare con una maggiore illegalità in senso stretto come, ad esempio, mancata retribuzione, elusione contributiva oppure forme di lavoro grigio o totalmente in nero.

Alla trasformazione delle forme di illegalità si accompagna però anche una loro diffusione capillare tra i settori. Tuttavia, una maggiore predisposizione è registrabile nei settori meno “ricchi”, come ad esempio la logistica, l’agricoltura o l’edilizia. La crisi dei consumi interni spinge le aziende a praticare illegalità nel tentativo di sopravvivere ad una vera e propria desertificazione in corso ormai da tempo per questi settori, in particolare per le piccole aziende. Le grandi aziende dei settori più ricchi invece, come ad esempio la metalmeccanica e l’industria manifatturiera in generale, risultano meno predisposte all’illegalità grazie anche ad un rischio maggiore di “scandali” che andrebbero ad impattare sull’immagine delle aziende, ormai vera e propria fonte di valore essa stessa in un mercato sempre più centrato sul ruolo del brand. C’è però un’ulteriore fattore che vale la pena di sottolineare, anch’esso legato ad un asimmetria tra i diversi settori. La presenza di un presidio “naturale” per la legalità come le organizzazioni sindacali, più presenti e strutturate nella manifattura e nelle grandi aziende, determinano infatti una minore esposizione nel caso esse siano presenti e un rischio marcato di illegalità nel caso esse siano totalmente assenti.

Tuttavia, la diffusione di pratiche illegali, in particolare durante la crisi, non lascia indenne neanche queste tipologie di aziende. Piuttosto esse riescono ad infiltrarsi in quegli spazi prodotti dall’esplosione della produzione nelle catene del valore, dove i nodi periferici molto spesso si trovano privi di un adeguato presidio sindacale. La necessità di far fronte alla costante compressione della domanda porta infatti le grandi aziende a cercare di ridurre sempre di più il costo delle attività meno redditizie come ad esempio la fornitura di materiale, i servizi di pulizia, sorveglianza, ecc..

Parliamo dunque del “sistema degli appalti”, come è stato definito nelle interviste, sottolineando una pressione proveniente da logiche di tipo sistemico e strutturale che finiscono per costruire una competizione legata a doppio filo con la capacità delle imprese di ridurre il costo del lavoro. La ricerca frenetica del minor costo possibile è infatti il principale fattore di illegalità, facendo così del “sistema degli appalti” il terreno ideale per una sua diffusione “accelerata”. Inoltre, non è un caso che questo settore sia largamente abitato da cooperative, le quali si caratterizzano sia per un regime fiscale agevolato, sia per una legislazione più lasca, coerente con l’intento di istituire un’organizzazione di impresa “alternativa”. L’illegalità nelle cooperative si confronta quindi con una vera e propria torsione dei suoi principi costituenti, la quale porta a casi come l’approvazione di verbali spesso finalizzati alla riduzione degli stipendi, l’applicazione di contratti nazionali firmati da sigle di dubbia rappresentatività, oppure la presenza di prestanome che rende difficile anche l’individuazione dei responsabili di pratiche oltre i limiti di legge.

Sul versante dell’offerta di lavoro, invece, emerge dalle interviste una forte correlazione tra la vulnerabilità sociale e la diffusione dell’illegalità. I profili maggiormente coinvolti corrispondono per larga parte a persone in condizione di alta ricattabilità, come ad esempio: gli stranieri, le donne, i giovani e i sempre più numerosi lavoratori anziani. Allo stesso modo la presenza di famiglie da mantenere, del godimento degli ammortizzatori sociali o di bassi skill dei lavoratori, determina un rapporto che vede crescere il rischio di illegalità al pari della condizione di vulnerabilità. Tali profili hanno in comune tra di loro anche un minore tasso di sindacalizzazione che dunque li espone ulteriormente al ricatto dell’illegalità sia a causa di un mancato “supporto” nella vita lavorativa, sia a causa di una scarsa informazione che li rende spesso complici inconsapevoli.

IL CICLO DELL’ILLEGALITA’
L’ipotesi con cui si prova a spiegare il dilagare del fenomeno dell’illegalità guarda non tanto alla corruzione morale che pure caratterizza le scelte individuali, ma piuttosto alla presenza di un nesso strutturale tra lavoro e illegalità. E’ infatti con questo intento che sono state interpretate quelle che abbiamo individuato come le cause dell’illegalità sia dal lato della domanda di lavoro, come ad esempio la pressione della competizione, gli effetti della deregolamentazione, le logiche del sistema degli appalti, sia dal lato dell’offerta come ad esempio le diverse forme di vulnerabilità sociale o i vincoli legati al godimento di ammortizzatori sociali (2). Lo scenario che emerge è dunque quello di una ripetizione ciclica delle varie forme di illegalità che coinvolge settori specifici e profili di lavoratori ben definiti: un ciclo complesso e ambivalente, capace di far leva sia su strumenti di tipo coercitivo, sia di tipo consensuale, questi ultimi volti in particolare ad assicurare la permanenza da parte dei lavoratori in una condizione di illegalità attraverso logiche in grado di scoraggiare la denuncia da parte dei lavoratori.

All’origine di tale ciclo vi è un vero e proprio patto tra lavoratore e datore di lavoro che costituisce la base sul quale poggiano le pratiche di illegalità. Elementi di contesto quali, ad esempio, la crescente disoccupazione oppure una presunta necessità di praticare illegalità per poter sopravvivere alla crisi, vengono utilizzati nel tentativo di persuadere il lavoratore della necessità di una violazione delle leggi. Tali elementi vanno dunque a costituire una sorta di “complicità imposta” che fa leva sia sull’innalzamento della soglia di tolleranza dei lavoratori, sia sulla loro rassegnazione rispetto ad un peggioramento “inevitabile” delle condizioni di lavoro. E’ inoltre importante sottolineare come la costituzione del patto sia inscindibile da una complessiva torsione autoritaria del rapporto di lavoro. In altre parole, nel momento in cui si violano i limiti stabiliti dalla legge si determina una vera e propria condizione di “proprietà” del lavoratore che aumenta ulteriormente il livello di ricattabilità e sedimenta un circolo vizioso fatto di autoritarismi e ricatti.

L’origine pattizia permette dunque di vincolare datore di lavoro e lavoratore in una condizione comune che spiega anche la scarsità di denunce che vengono rivolte all’ufficio vertenze. Tale legame viene però sollecitato anche dal rischio di venire etichettati come “piantagrane”, ossia come coloro che, denunciando, mettono in difficoltà non soltanto l’impresa, ma anche il posto di lavoro dei propri colleghi. Il rischio che tale etichetta permanga anche nel momento in cui si procede alla ricerca di un nuovo lavoro costituisce dunque un ulteriore fattore di scoraggiamento della denuncia.

La condizione di illegalità assume così un andamento circolare che stenta ad emergere. I casi di denuncia si fanno sempre più rari e il ciclo viene “rotto” solo grazie all’occhio attento di qualche funzionario sindacale o grazie agli interventi, sempre più rari, degli ispettori del lavoro. Tuttavia, ciò non vuol dire che non vi siano dei tentativi di rompere il ciclo dell’illegalità da parte dei lavoratori. Piuttosto sembra che vi sia la necessità che si inneschino dei meccanismi precisi per far sì che questo accada. Il più frequente di questi meccanismi è la rottura unilaterale del patto da parte del datore di lavoro, evento che si verifica nel momento in cui viene interrotta la ripartizione dei vantaggi, talvolta addirittura approdando alla totale eliminazione del salario. Il secondo riguarda la possibilità da parte del sindacato di spingere i lavoratori alla denuncia. La sempre maggiore difficoltà da parte del sindacato di penetrare all’interno di questo complesso meccanismo, mette in luce però la presenza di un forte scoraggiamento da parte dei lavoratori verso la possibilità di esigere il rispetto dei propri diritti così come garantiti dalla legge e/o dal CCNL.

L’esito delle vertenze, così come l’andamento di una legislazione che in virtù della deregolamentazione produce un’erosione dei diritti dei lavoratori, costituiscono infine un ulteriore fattore di sfiducia rispetto alla possibilità per i lavoratori di vedersi restituito il maltolto. La tradizionale azione sindacale sembra dunque trovarsi di fronte ad una dicotomia, da un lato la tutela degli interessi dei lavoratori, che passa sempre meno da vertenze di tipo legale e sempre più attraverso soluzioni transattive, dall’altro l’azione legale, che molto spesso non riesce a soddisfare le necessità dei lavoratori, ma che è l’unica strada possibile per poter far emergere l’illegalità e per rompere la sua riproduzione ciclica.

CONCLUSIONI. OLTRE LA TUTELA INDIVIDUALE
La scoperta del “ciclo dell’illegalità” ci spinge dunque a ripensare gli strumenti con cui vigilare sulla corretta applicazioni delle leggi. Gli attuali strumenti di tutela individuale appaiono infatti sempre più insufficienti e bisognosi di un superamento.

Le possibili direzioni da intraprendere passano anzitutto attraverso una maggiore apertura nei confronti degli altri attori territoriali impegnati nella lotta per la legalità. Ci si riferisce qui non solo alle associazioni di cittadini, ma anche alle associazione datoriali, alle forze di polizia, agli ispettori del lavoro, ecc.. La promozione di campagne sul territorio volte da un lato alla sensibilizzazione dei cittadini nel tentativo di svelare i “falsi miti” che sempre di più si diffondono tra i lavoratori, come ad esempio l’idea che dimostrarsi disponibile all’illegalità aumenti le probabilità di trovare un posto di lavoro, dall’altro a cooperare attraverso lo scambio di informazioni e la definizione di priorità comuni, con l’obiettivo, dunque, di costituire dei veri e propri presidi “comuni” per la legalità.

Tuttavia, dalle interviste emerge anche la necessità di un intervento da parte della politica su tre assi. Il primo è una netta inversione di tendenza rispetto alla deregolamentazione che, paradossalmente, sembra aver prodotto una maggiore tendenza a violare i limiti di legge. Il secondo riguarda una riforma degli ammortizzatori sociali in chiave universale, capace di ridurre la ricattabilità dei profili maggiormente coinvolti evitando la coercizione al lavoro. Il terzo è invece la necessità di sviluppare anche in Italia una legislazione capace di incoraggiare e supportare chi denuncia. In tutta Europa negli ultimi anni sono stati fatti degli importanti passi in avanti sul whistleblower, ossia di un pacchetto di leggi capace di tutelare chi denuncia attraverso la garanzia dell’anonimato, mentre l’Italia paga ancora una volta un ritardo consistente su un fronte che è storicamente prioritario. Il superamento della tutela individuale verso una maggiore integrazione con la tutela collettiva, iniziative sul territorio e una maggiore sollecitazione nei confronti della politica sembrano dunque essere le strade obbligate per combattere un fenomeno, quello dell’illegalità sul lavoro, che grava sulle spalle di tutti, e non solo dei lavoratori. 

Note
(1) Università degli Studi di Bari "Aldo Moro", Università degli Studi di Milano‐Bicocca, Università degli Studi di Ferrara, Università degli Studi di Genova, Università degli Studi di Padova, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Università degli Studi di Sassari, Università degli Studi di Trieste, Università degli Studi di Udine e Università Ca’ Foscari di Venezia.

(2) 
Più specificatamente dalle interviste è emerso come a volte siano gli stessi lavoratori a suggerire prestazioni di lavoro a nero a causa dei vincoli previsti dalla CIGO sulla possibilità di effettuare altri lavoro nel momento in cui si gode di tali ammortizzatori sociali.