La crisi di Alitalia è vera e molto profonda. Sarebbe lungo spiegare le tante ragioni che hanno condotto il quinto vettore aereo al mondo a doversi confrontare per la seconda volta in pochi anni con la necessità di portare i libri in tribunale. Per gli esteti del liberismo nostrano è utile intanto ricordare un dato incontrovertibile: la vituperata gestione pubblica di Alitalia è storicamente risultata persino migliore della più recente gestione dei “capitani coraggiosi” che, riuniti dal governo Berlusconi al capezzale della compagnia, avevano promesso il risanamento e il rilancio. La seconda evidenza che va sottolineata è che tra le cause di questo ennesimo fallimento non si possono in alcun modo annoverare fattori riconducibili al lavoro.

Il costo del lavoro in Alitalia, infatti, è di oltre il 40 per cento inferiore a quello di Air France o di Lufthansa, la flessibilità nell’impiego della forza lavoro non ha eguali negli altri operatori europei e globali. Le ragioni evidentemente sono altre e vanno fatte risalire all’evidente inadeguatezza del Piano Fenice. Come ben sa il governo, questa era la nostra opinione espressa già diversi mesi fa, quando i vertici di Cai continuavano a negare ogni difficoltà. Il Piano Fenice non ha mai visto un reale impegno di investimento per riposizionare la compagnia in un’area di business compatibile con la sua struttura. Semplicemente ci si è illusi che sarebbe bastato applicare il piano Air France sotto mentite spoglie, quello stesso piano che tutte le organizzazioni sindacali avevano respinto ritenendolo (a ragione) mortale per il futuro dell’azienda.

Il problema resta un modello produttivo che, pur avendo un costo del lavoro più che competitivo rispetto ai maggiori full carrier, costringe l’azienda a confrontarsi sul mercato tipico delle low cost, innescando una corsa al ribasso dagli esiti letali. Basta avere la pazienza di analizzare i dati: Alitalia non sembra in eccesso di personale, siamo a circa 106 dipendenti per aeromobile, contro i 174 di Air France, ancora di più per Lufthansa. Ma, allo stesso tempo, Air France ha 41 milioni di euro di fatturato per aereo (addirittura 102 per Lufthansa), mentre Alitalia si ferma a 26 milioni per aeromobile. Il problema non è né il costo del lavoro né il numero dei dipendenti: è il posizionamento di mercato che non consente i ricavi necessari a costruire l’equilibrio economico.

Con questa convinzione abbiamo lavorato intensamente per molto tempo per cercare una soluzione e, almeno dal punto di vista della direzione di marcia, abbiamo da subito espresso un giudizio positivo sul piano Etihad. Naturalmente, avremmo voluto un progetto più coraggioso, con una scommessa sul futuro più ambiziosa. In questo senso, il piano Etihad è certamente molto prudente, ma altrettanto certamente si muove, a differenza di quello targato Air France, nella direzione giusta: piú qualità e più rotte intercontinentali.

C’erano quindi le premesse per trovare un’intesa, la nostra sola preoccupazione è sempre stata quella di impedire un’ulteriore ingiustizia, che a pagare gli errori di altri fossero ancora chiamati con durezza i lavoratori. Per questo ci siamo impegnati a scongiurare i licenziamenti e non abbiamo sottoscritto l’accordo di gestione delle eccedenze. La soluzione esisteva, l’utilizzo della cigs per accompagnare l’implementazione del piano era sul tavolo del confronto, era stata ritenuta praticabile dallo stesso ministro del Lavoro, salvo poi scivolare sull’adozione di un metodo estraneo alla prassi corrente e forse persino oltre le stesse norme di legge della Repubblica. Ora si può invocare, come è stato fatto, lo stato di necessità, e tuttavia questa scelta configura un gravissimo precedente, che può condizionare negativamente altre situazioni di crisi e che non ha aiutato a trovare il clima giusto per una positiva conclusione della vertenza.

Detto ciò, proprio il nostro convincimento sulla necessità di sostenere il tentativo di superamento di una crisi sempre vicina al fallimento ci ha portato, dopo una breve riflessione, a condividere con i nostri rappresentanti in Alitalia la scelta di sottoscrivere l’accordo sul costo del lavoro che rende disponibili circa 30 milioni di euro per gestire l’emergenza, e il nuovo contratto nazionale di lavoro, che dispiegherà i suoi effetti economici nel corso del 2015 e 2016. Le fibrillazioni delle ultime ore lasciano interdetti. Non appare credibile un senso dell’urgenza e l’invocazione dello stato di necessità a fasi alterne, non si può accettare come ineluttabile la perdita di centinaia di posti di lavoro e poi fare le pulci su un sacrificio economico, modulato sui redditi reali, limitato a sei mesi e poi compensato con l’entrata in vigore del nuovo contratto. Ora il richiamo alla responsabilità vale per tutti, per il governo, per l’azienda, per le banche e per gli azionisti della vecchia Cai, e a tutti va chiesto il massimo di coerenza e trasparenza. Per quanto ci riguarda restiamo convinti dei nostri sì e dei nostri no. Nei prossimi giorni ci confronteremo ancora con i lavoratori, spiegheremo le nostre ragioni e naturalmente ci atterremo alle scelte che sapremo fare assieme.

* Segretario confederale Cgil