La notizia, prima della stampa ufficiale, l’hanno data i blog e cioè la forma giornalistica di oggi che forse sarebbe stata più congeniale ai suoi fotoreportage pieni di umori e notazioni personali. Ieri cinque marzo è morto Ando Gilardi, un grande della fotografia e del giornalismo italiani, che per un lungo periodo, negli anni cinquanta, lavorò al settimanale della Cgil “Lavoro”, collaborando a tutto campo con il direttore di allora Gianni Toti, di cui fu l’alter ego, pronto a incoraggiare tutti i suoi progetti e a condividerne le sperimentazioni anticipatrici.

Ando era molto anziano, ma ancora attivo, dentro le vicende del mondo artistico e giornalistico del nostro paese; la sua presenza era oggi, così come era sempre stata nel passato, intellettualmente provocatoria, irridente, demolitrice di luoghi comuni: a cominciare da quelli che si nascondono nei ricordi e ci consegnano immagini del passato diverse dalla realtà vera, che spesso è fatta da protagonisti la cui statura ci appare più alta di quella che fu, per il lavorio pietoso della distanza e del tempo. Una mistificazione della prospettiva nella quale Ando non cadeva e che, senza misericordia, denunciava.

Una volta lo citai in un mio post dedicato a “Lavoro” e al suo ruolo innovatore nella stampa sindacale. Mi mandò un sulfureo commento, ricordando senza censure alcuni episodi di quegli anni e del rapporto controverso che il giornale, e la sua brillante redazione, ebbero con la Cgil.

“Lavoro”, nelle stanze di Corso d’Italia, poteva contare su un solo protettore, Giuseppe Di Vittorio, un leader che non ha avuto bisogno della commozione dei ricordi per rivelarsi nella straordinaria dimensione che gli fu propria in tutte le situazioni della sua vita. Lo stesso Ando glielo riconosceva, mentre non lesinava battutacce nei confronti dei burocrati che ogni tanto erano capitati, a intralciarne il cammino, tra le gambe veloci di quel periodico che volle costruire una sua storia del mondo del lavoro del nostro paese, con toni sempre indigesti al conformismo che condizionava la cultura della sinistra dell’epoca: una cappa plumbea di cui essa con molta fatica - e non sempre e non in tutte le sue componenti, anche sindacali - riusciva a liberarsi. E che perciò non sfuggiva all’irriguardoso sberleffo di Ando.

Di Ando Gilardi pubblichiamo questo testo che ricorda gli anni di “Lavoro”, tratto da “Gianni Toti, o della poetronica”, edito da ETS e Casa Totiana, con la cura di Sandra Lischi e Silvia Moretti. La testimonianza era comparsa sulla rivista “Photo” nel 2009.