È scomparso la mattina del 22 febbraio nella sua abitazione romana Claudio Cianca. Aveva 102 anni. Ne ha trascorsi dieci in carcere per aver fatto esplodere un ordigno inoffensivo nel pronao della Basilica di San Pietro. Era il 1933, aveva vent’anni e una gran voglia di rendersi utile alla causa antifascista, di compiere un gesto che richiamasse l’attenzione del mondo sull’Italia di Mussolini. Perseguitato politico, partigiano, dirigente della Cgil, consigliere comunale a Roma, protagonista di memorabili battaglie contro la speculazione fondiaria ed edilizia, a lungo parlamentare del PCI, Cianca si è raccontato in una videointervista e in un libro - Il mio viaggio fortunoso - che ho curato nel 2009 per l’Ediesse.

Nato a Roma nel 1913, Cianca trascorre buona parte dell’infanzia in giro per l’Italia, al seguito del padre Renato, dipendente dei Lavori pubblici. Ad Avezzano il piccolo Claudio è incuriosito da alcune persone vestite in modo strano: “Erano prigionieri della Grande Guerra, austriaci e ungheresi, portati lì per rimuovere le macerie”.


A Santa Sofia di Romagna conosce il volto violento del fascismo. Per stroncare uno sciopero i fascisti organizzano una spedizione punitiva e aggrediscono lavoratori e cittadini radunati sulla piazza del paese. I carabinieri assistono senza intervenire, mentre da un balcone qualcuno urla: “Prepotenti! Delinquenti!”. Lo vanno a prendere e lo portano giù in piazza: è un handicappato sulla sedia a rotelle, ma danno lo stesso l’olio di ricino a lui e alla sorella che tenta di difenderlo. Al comizio di protesta parla il padre di Claudio, militante socialista, e i fascisti gliela fanno pagare: “Tornò a casa con la faccia tutta gonfia, con il sangue che grondava dal viso e dalle labbra”.

Nel 1924, poco dopo il delitto Matteotti, il ritorno a Roma. Claudio è un giovane spavaldo che non nasconde il suo antifascismo. Si va a cacciare in situazioni difficili, ma riesce sempre a cavarsela da solo. Scopre l’anarchia dopo che un ciabattino gli ha fatto leggere Il Caffè di Malatesta: “Mi colpì l’affermazione di Bakunin secondo cui la libertà senza socialismo è privilegio, ingiustizia e il socialismo senza libertà è schiavitù, tirannia”. A orientare le tue scelte concorre l’ambiente familiare: suo zio Alberto è direttore de Il Mondo, voce dell’opposizione liberaldemocratica raccolta intorno a Giovanni Amendola.

Nell’ottobre 1926 Claudio è testimone dell’irruzione dei fascisti in casa dello zio: gli squadristi non lo trovano (è nascosto in terrazzo) e allora sfogano la loro rabbia colpendo con le loro mazze i mobili, gli specchi, i quadri e buttando tutto giù nella piazzetta, dove una piccola folla applaude all’impresa.

Nel 1933 Cianca mette a frutto la sua perizia di elettrotecnico per confezionare una bomba inoffensiva: “Era un atto dimostrativo, un grido di libertà”. Lo condannano a 17 anni, ma ne sconta solo 10 grazie alla caduta del fascismo. Tra i prigionieri politici è l’ultimo a uscire, il 9 settembre 1943, all’indomani dell’annuncio dell’armistizio. Dopo un viaggio avventuroso, che ricorda il film Tutti a casa, riabbraccia i famigliari, ma è di nuovo costretto a nascondersi. Aderisce al Pci e partecipa alla Resistenza romana.

Il 4 giugno 1944, mentre i romani sono in strada a festeggiare la sospirata liberazione della città, Cianca con un gruppo di compagni armati occupa la sede dei sindacati fascisti: sarà la sede della ricostituita Camera del lavoro di Roma, di cui diviene autorevole dirigente. Ma è soprattutto leader, prima romano e poi nazionale, degli edili che lo accolgono con grande calore quando va a tenere i “comizi volanti” nei cantieri: “Mi facevano sedere in mezzo a loro, sui mucchi di mattoni: io li mettevo al corrente della preparazione degli scioperi, delle trattative per i contratti e ascoltavo i loro problemi. Poi parlavo con l'altoparlante montato sulla macchina. Qualche volta i capi cantiere chiamavano la polizia, allora anche gli operai che magari sarebbero restati sulle impalcature, scendevano e partecipavano al comizio”.

La sua gioventù l’ha bruciata in carcere, ma si è sempre considerato un uomo fortunato: “Se non mi avessero messo dentro forse sarei morto in qualche fronte di guerra”. E come momento più bello della sua lunga e intensa vita pubblica ricordava il Congresso della Cgil, nel 1945 a Napoli: “fu una cosa davvero commovente, perché ci sentivamo lavoratori consapevoli della propria forza, non più sudditi ma cittadini che partecipavano alla costruzione di una democrazia”.  Una vita esemplare, un’eredità impegnativa.