Tra il 2008 e il 2009 il Pil è caduto del 5,6% in Germania, del 5,5% in Italia, del 3,6% in Spagna e del 4,5% nell’area dell’euro. In Francia, in quello stesso lasso di tempo, il Pil si è ridotto “soltanto” del 2,9% e già nel 2011 il paese aveva recuperato i livelli di Pil procapite precedenti la crisi. Non solo. Malgrado il tasso di crescita sia stato decisamente modesto negli ultimi tre anni, una piccola, ma significativa accelerazione è prevista nel biennio 2015-2016 (1,0% e 1,8% rispettivamente).

Il successo francese è in buona parte attribuibile alla politica di deficit spending e al sostegno alla domanda interna: nel corso del 2009, infatti, la spesa pubblica in rapporto al Pil è cresciuta dal 53% al 56,8%. Sempre nello stesso anno, il deficit pubblico in rapporto al Pil è più che raddoppiato, raggiungendo il 7,5% e il rapporto debito pubblico/Pil ha conosciuto un aumento di circa 10 punti percentuali, toccando il 79%. Negli anni seguenti, la spesa pubblica ha continuato a crescere e ha finanziato in modo più generoso interventi a sostegno della famiglia, dell’istruzione pubblica e dei disoccupati.

Dal 2009 in poi il deficit in rapporto al Pil non è mai sceso al di sotto della soglia del 3% (tanto che nel 2009 la Commissione europea ha fatto scattare per Francia la procedura per deficit eccessivo) e il debito ha continuato a crescere raggiungendo il 95% del Pil nel 2014. In ogni modo, il paese non ha vissuto particolari tensioni nei mercati finanziari. Al contrario, negli ultimi anni il tasso di rendimento sui titoli di Stato a 10 anni ha toccato i minimi storici: 0,51% nel marzo 2015 (contro l’1,29 dell’Italia, l’1,23 della Spagna e lo 0,23 della Germania). I rendimenti sui titoli a un anno e a due anni sono addirittura divenuti negativi. In sostanza, oggi c’è chi è disposto a pagare per prestare per qualche tempo soldi allo Stato francese.

Anche il mercato del lavoro, negli anni immediatamente successivi allo scoppio della crisi, ha retto relativamente bene: dal 2008 in poi il tasso di occupazione (che in Italia è sceso di circa tre punti percentuali) è rimasto sostanzialmente costante, anche grazie all’utilizzo di meccanismi analoghi alla nostra cassa integrazione. Inoltre, contrariamente a quanto è avvenuto nel nostro paese, i salari reali non sono caduti, malgrado l’aumento della disoccupazione.

Gli indicatori relativi al disagio sociale appaiono, negli ultimi anni, complessivamente migliori di quelli della maggior parte dei paesi europei. Il tasso di deprivazione materiale, per esempio, ha subito fluttuazioni di lieve entità passando dal 12,2% nel 2007 al 12,3% nel 2013, mentre nello stesso periodo è passato dal 13,3% al 16,5% nell’area dell’euro (e l’indicatore italiano è aumentato dal 14,9% al 24,0%). Da questi dati sembra difficile concludere che la Francia rischia di essere il nuovo malato dell’area dell’euro. Invece, secondo la Commissione, le cose starebbero proprio così.

Il motivo è che il paese presenta squilibri economici considerati eccessivi e rischia di essere sottoposto ai meccanismi correttivi della Macroeconomic Imbalance Procedure. Se ciò avvenisse, il governo francese dovrebbe attuare un importante piano di aggiustamento e andrebbe incontro a sanzioni monetarie in caso di inadempienza. Il problema della Francia è lo squilibrio dei conti con l’estero e la scarsa competitività, soprattutto rispetto a paesi quali la Spagna e la Germania. In un contesto in cui sono peggiorati anche il debito pubblico e privato e il tasso di disoccupazione, il caso francese appare preoccupante agli occhi delle istituzioni europee.

Le cause degli squilibri sono da ricercare (anche) nelle politiche economiche che hanno permesso al paese, finora, di non soccombere alla crisi: l’alto costo del lavoro e l’alta imposizione fiscale sulle imprese necessari per finanziare la spesa pubblica; le forti tutele del mercato del lavoro; i salari relativamente dinamici. Il deficit spending e il sostegno ai consumi hanno stimolato la domanda di beni importati e, secondo la Commissione europea, hanno ridotto il profitto per l’industria, incidendo negativamente sulla capacità  di competere in un mercato globale. In aggiunta, nel paese si registra una pesante regolamentazione dei servizi, che lo rende poco competitivo.

Bruxelles ha quindi raccomandato alla Francia di  ridurre la  spesa sanitaria, pensionistica e per il sostegno alle famiglie; diminuire la contribuzione sociale a carico delle imprese; ridurre alcune detrazioni fiscali; contrastare le rigidità del mercato del lavoro, modificando i meccanismi di contrattazione salariale; rivedere il sistema dei sussidi di disoccupazione; metter mano a riforme volte a liberalizzare i mercati dei prodotti e dei servizi.

A oggi, la Francia ha attivato solo alcune misure in linea con le richieste di Bruxelles. Sono stati previsti risparmi nella spesa sanitaria; le retribuzioni dei dipendenti pubblici sono bloccate dal 2010 e il governo presieduto da Manuel Valls ha congelato l’importo di alcune prestazioni sociali. Tuttavia, al momento non sono stati modificati i sussidi di disoccupazione, né i margini per derogare agli accordi collettivi. Il governo si è concentrato su interventi di semplificazione normativa e di liberalizzazione dei servizi  (legge Macron): la possibilità di apertura dei negozi la domenica è stata estesa da 5 a 12 domeniche all’anno nelle città e a tutte le domeniche nei siti turistici.

Benché le riforme effettuate siano considerate poco coraggiose da Bruxelles, in Francia il malcontento per le politiche del governo si fa sentire, soprattutto in vista delle misure del primo ministro Valls finalizzate a potenziare la contrattazione a livello di impresa. D’altro canto, Hollande si è impegnato a ridurre il deficit entro la soglia del 3% del Pil entro il 2017. È dunque il caso di chiedersi se le politiche di austerità siano arrivate anche in Francia e se il modello sociale francese rischi in poco tempo di essere stravolto. Il verdetto di Bruxelles è atteso tra pochi giorni, ma oramai la Francia appare stretta tra due fuochi: squilibri macroeconomici e riforme richieste per contrastarli. A quanto pare, la parola austerità non ha un suono dolce nemmeno se pronunciata in francese.