Spente le luci del Palacongressi di Rimini, rimane forte addosso la convinzione di aver vissuto quattro giorni intensi, traboccanti di pura e sana passione. Chi ha avuto la fortuna di frequentare non solo la plenaria, ma ogni angolo della struttura che ha ospitato il XIX congresso della Cgil, ha potuto respirare partecipazione e militanza. Un binomio sempre più obsoleto in tempi di egoismo imperante. E invece l'accogliente casa del sindacato più grande d'Italia è riuscita, ancora una volta, a fare quadrato. Nonostante il fuoco amico-nemico di chi ha provato - legittimamente, per carità - a trasformare la discussione in sterile polemica rovesciando le proprie frustrazioni contro un’organizzazione che da 117 anni porta avanti valori che anche stavolta hanno sovrastato il rumore di fondo.

Una comunità che ha naturalmente dei limiti, figli di una crisi evidente della rappresentanza politica e sociale in atto nel nostro Paese, ma che riesce ogni volta a creare gli anticorpi necessari per non soccombere, anzi per rigenerarsi e costruire le basi affinché il lavoro resti protagonista. Un luogo aperto dove discutere, contrattare, rivendicare, lottare e soprattutto proporre una propria visione del mondo. Consapevoli, come ci insegna Giuseppe Di Vittorio, che “la nostra causa è veramente giusta, serve gli interessi di tutti, gli interessi dell'intera società, l'interesse dei nostri figliuoli. Quando la causa è così alta, merita di essere servita, anche a costo di enormi sacrifici”.

Quel “sacrificio” che molti militanti e delegati hanno dovuto sostenere, con ammirevole pazienza e smisurata civiltà, ascoltando l’intervento della presidente del Consiglio Meloni all’interno di una sala rumorosamente silenziosa. In un esercizio intriso di retorica nazional-sovranista, la premier ha elencato la solita vecchia ricetta ultraconservatrice. Dove lo Stato dà la precedenza al mercato, dove i poveri devono cavarsela da soli, dove le tasse strizzano l’occhio ai ricchi, dove la precarietà viene normalizzata, dove la dignità del lavoratore si misura in voucher, dove il salario minimo viene derubricato, dove l’enfasi della nazione stride con l’autonomia delle piccole patrie, dove per curarsi è necessario avere in tasca la carta di credito.

Distanze siderali. Emisferi contrapposti. Visioni alternative. I trentadue minuti della presidente Meloni lo hanno ribadito con forza. Neanche le virgole del discorso concordano con la sintassi sindacale. Né scalfito il dna orgogliosamente antifascista tatuato nelle sue radici più profonde. Ma era comunque giusto ascoltare quelle parole, perché rappresentano la voce di un governo con cui, volenti o dolenti, si deve interloquire. Perché, come ha ricordato più volte il segretario generale Landini, “se vuoi essere ascoltato devi saper ascoltare”.

Dunque: ascoltare, pazientare, ringraziare e, alla fine, contrastare. Contrastare subito, senza perdere troppo tempo, aprendo una grande vertenza permanente nel Paese, a cominciare dai luoghi di lavoro. Meglio se insieme a Cisl e Uil, prefigurando un ritorno a quell’unità sindacale necessaria per avere ancora più vento dietro le spalle. Sicuramente con la società civile e con le tante associazioni laiche e cattoliche che insieme alla Cgil hanno costruito da tempo un percorso comune: dal no alla guerra e al riarmo alla lotta contro le disuguaglianze, dal contrasto ai cambiamenti climatici e per una giusta transizione ambientale alla tutela dei diritti. E al fianco dei sindacati internazionali, presenti con oltre 50 delegazioni al congresso, con i quali si è rafforzata la rete antifascista europea e si è cementificato quel blocco sociale per ostacolare le tante, troppe, ingiustizie in giro per il mondo.

Contrastare sul campo, con la forza dei delegati. Sono stati loro i veri protagonisti di questo congresso e devono essere loro i protagonisti di questo processo di cambiamento. Sentinelle dei diritti sparse nei luoghi di lavoro, a tenere botta e a conquistare spazi di tutela con la lotta e la contrattazione. Grazie a tutti loro. Alla determinazione di Olga che in sella alla sua due ruote porta cibo nelle nostre case e diritti ai suoi colleghi. Grazie alla caparbietà di Valeria, operaia della Whirpool, in attesa con i suoi oltre 500 colleghi di riavere il posto di lavoro. Grazie alla forza di Sabrina, impiegata in una cooperativa sociale ad aprire le porte a chi arriva nel nostro Paese in cerca di un abbraccio. Grazie alla dedizione di Andrea, impegnato nella tutela quotidiana del territorio. Grazie al coraggio di Angela, appena eletta Rsu e precaria chissà per quanto tempo ancora.

Sono loro la linfa vitale del sindacato confederale. La grande bellezza che sfida il futuro con i piedi ben ancorati a terra. Tanti piccoli quadrati che unendosi ne formano uno sempre più grande. Perché, nonostante tutto, la Cgil rimane l’ultima grande organizzazione sociale di massa, dove la convinzione a un’idea, l'adesione a un ideale, l’abbraccio sotto una bandiera, il compagni e compagne pronunciato con la voce tremante non sono una semplice forma di appartenenza a una comunità, bensì la precisa volontà di cambiare davvero le cose.